Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 56° Eccellenza, quella del comune di Palena in provincia di Chieti, con il Castello Ducale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 249, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Il castello ducale di Palena detto un tempo anche Castel Forte, risale al XII secolo, ma fu alterato nell’epoca cinquecentesca con l’ampliamento della struttura. I primi insediamenti normanni risalgono all’XI secolo a Palena, e originalmente il castello ducale era solo una torre di controllo, poi ampliata con la costruzione della struttura difensiva. E’ posto su di uno sperone roccioso sul punto più alto dell’abitato e spicca nel contesto del paese per la sua mole nella parte più alta del centro storico di Palena, il fortilizio si articola su tre livelli con un giardino pensile ed un terrazzo panoramico: presenta un corpo centrale intorno al quale si sviluppano due ali laterali.
Questa antica roccaforte è in realtà giunta a noi in forme più riconducibili alla tipologia del palazzo fortificato che a quelle di un vero e proprio castello. Oggi il palazzo è caratterizzato da una pianta rettangolare irregolare, che si rivela frutto di aggiunte e trasformazioni secolari. Esternamente le cortine murarie leggermente scarpate, sono l’unico elemento che ancora ne rivela l’origine militare, mentre altri elementi, come le file di ampie finestre e la loggetta sull’avancorpo, ne danno l’immagine di una residenza nobiliare sobria ma elegante. Maestoso, superbo, solitario, si erge sull’erta roccia e più volte è stato restaurato a causa della vetustà, di vicende belliche e terremoti, perdendo così la sua originale caratteristica costituita dal sontuoso palazzo feudale e dal “maschio”. Resta soltanto la “loggia” che si affaccia sopra la roccia a strapiombo».
La Torretta di Controllo fu costruita circa nel 1956, nel piazzale del cortile del castello ducale, con l’aggiunta di merlature, di quattro orologi per ciascuna facciata, e una cella campanaria sulla sommità per suonare le ore, quando la giunta comunale decise di abbattere la vecchia torretta di guardia della piazza della chiesa di San Falco, perché giudicata pericolante dopo i bombardamenti nazisti. Tale fatto non è mai stato chiarito, in quanto alcune parti sostenevano che la vecchia torre fosse in perfetto stato. Ciononostante la torre fu demolita, e di essa oggi rimane solo un arco, e la nuova torre fu costruita, in aspetti architettonici medievali, nel piazzale del cortile del castello ducale.
La prima testimonianza che attesti l’esistenza del Castello risale all’anno 1136: sorto probabilmente su un antico tempio dedicato alla dea Cerere, dea della terra e della prosperità, per successivi ampliamenti l’originario fortilizio, ha assunto l’aspetto di una struttura complessa. La storia e la leggenda narrano che le origini del castello vanno probabilmente rintracciate nel pieno Medioevo. Sorto nel periodo dell’invasione normanna, le cronache ci riferiscono che intorno all’anno 1000 era signoreggiato da un Matteo di Letto. Durante il periodo svevo, il castello era signoreggiato dal conte Tommaso di Caprofico, ghibellino, che sebbene fosse stato un ardente sostenitore di Federico II, era un fervente religioso. Si racconta che nel 1216 queste mura ospitarono il Poverello di Assisi, San Francesco, che si dirigeva da Guardiagrele a Castelvecchio Subequo. Il suo passaggio rimase per sempre nella memoria del paese e di coloro che lo governarono a tal punto che Florisenda, la figlia del Conte Tommaso Vinciguerra, che qui nacque nel 1239, ispirata dal poverello di Assisi. Florisenda crebbe nello spirito cristiano e, morto il padre, la vocazione alla vita monastica si fece via via più ardente. Celando un particolare disegno nel suo cuore, Florisenda chiese ai suoi fratelli di poter avere la parte di eredità lasciatale dal padre che comprendeva, fra le altre cose, la terza parte del castello di Forca Palena. Con questa proprietà, e 360 once d’oro ottenute dalla madre, Florisenda si recò a Sulmona, dove acquistò un edificio, ancora esistente in piazza Garibaldi, in cui nacque una comunità di Clarisse di cui ella stessa divenne badessa, il convento di Santa Chiara. Florisenda dovette combattere contro l’avversa volontà dei suoi fratelli che in tutti i modi tentarono di riappropriarsi della parte del castello di Forca Palena di sua proprietà: nonostante l’intervento del Vaticano a difesa delle prerogative della badessa Florisenda e del suo convento, la contesa si protrasse a lungo; il 15 gennaio 1305 Carlo II d’Angiò confermò alle clarisse la donazione dell’eredità di Florisenda, ragione per la quale l’area del castello di Forca Palena prese il nome di Quarto di Santa Chiara.
Oltre ad offrire ottima sicurezza di dominio, il catello era il centro residenziale della Contea omonima, l’antico Palatium in Domo, cioè terra dominicana. Al XIV secolo risale il dominio dei conti di Manoppello, al XV quello dei Caldora e dei Conti di Capua, ed infine dei D’Aquino che ne rimasero proprietari fino al 1807. Le origini del castello vanno probabilmente rintracciate nel pieno medioevo dal momento che Palena, già dall’anno mille, viene ricordata come feudo di Matteo Da Letto. In seguito la struttura passò nelle mani delle più importanti famiglie feudali della zona: dai conti di Valda, ai Conti Borrelli, dai Mallerius ai conti di Sangro, che apportarono notevoli modifiche alla struttura. Nel 1269 Carlo I d’Angiò donò il castello al feudatario Sordello da Goito, reso famoso da Dante Alighieri per averlo inserito nel Purgatorio della Divina Commedia. Nel XIV secolo il castello passò nelle mani dei duchi di Manoppello, e successivamente dei Caldora e dei Di Sangro. In quei secoli iniziarono a circolare crude leggende riguardo alle camere di torturasituate nei sotterranei della roccaforte, nel cuore dello sperone roccioso dove la struttura poggia.
La roccaforte, nel periodo Settecentesco e Ottocentesco fu usata come prigione per i ribelli, e venne soprannominato Castel Forte, e gli ultimi padroni furono i baroni di Colledimacine, prima che il castello, nel Novecento, venisse definitivamente abbandonato. Terribili sono le leggende sulle prigioni del maniero. Intorno a questo storico maniero dell’antico Abruzzo Citeriore, cupe notizie si diffondevano a terrorizzare i servi della gleba: tetre prigioni dove si torturavano esseri umani e si commettevano nefandezze inopinabili; ancora oggi nei due angusti sotterranei del Castello ove venivano rinchiusi i rei e sul pavimento è ancora visibile il triste telaio dei condannati, il “trabocchetto” un orrido buco che inghiottiva i condannati a morte che venivano fatti precipitare dalla roccia per circa quaranta metri.
Nel secolo scorso il castello di Palena fu assai trascurato, e subì vari danneggiamenti tra cui la distruzione dei torrioni, del maschio e del belvedere dovute al terremoto del 1933 e alle incursioni naziste durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944. Nel decennio successivo il castello fu restaurato, nella sua forma originaria, senza i torrioni, e assunse fama quando divenne museo, infatti oggi il castello Ducale è oggi sede del Museo Geopaleontologico Alto Aventino e della “Casa degli artisti e degli uomini illustri di Palena” e al suo interno vengono periodicamente organizzate attività didattiche e ludiche per bambini su temi legati alla conoscenza del territorio. I visitatori del borgo possono lasciare i figli al castello per partecipare alle varie iniziative proposte giorno per giorno e prendere contemporaneamente parte ad altre attività dedicate agli adulti. I terremoti del 1706 e del 1933 ferirono profondamente il complesso, cui la seconda guerra mondiale non risparmiò danni e distruzioni, ma oggi il Castello ducale, dopo una lunga campagna di restauro è tornato a nuova vita.
Fonti
Foto by Abruzzomania – comune.palena.ch.it – abruzzocitta.it
Castello ducale di Palena – Wikipedia
Palena – Wikipedia
Castello Ducale – Comune di Palena
Castello Ducale – Palena (Ch) | Regione Abruzzo | Dipartimento Sviluppo Economico – Turismo (abruzzoturismo.it)
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 55° Eccellenza, quella del comune di Montefino in provincia di Teramo, con il Borgo Medievale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 250, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
“Scendendo da Bisenti verso Castiglione, sulla sinistra, come nido feudale, le povere case di Montefino…”. Così una guida del Touring di oltre mezzo secolo fa descriveva il piccolo borgo di Montefino dalle abitazioni per lo più in pietra grigia, molte delle quali persino non intonacate, ma comunque affascinanti a vedersi, aggrappate come sono le une alle altre e circondate da spessi muraglioni di sostegno. Depliant turistici d’epoca la definivano ‘città del silenzio’, forse alludendo alla laboriosità degli abitanti del borgo che, impegnati nell’ardua impresa di coltivare un terreno profondamente segnato dal fenomeno erosivo dei calanchi, risultavano poco disponibili alle cosiddette ‘chiacchierate di cortesia’.
Montefino, antica “Monte Secco” come si rileva da un documento dell’anno 1019, sorge a 375 metri sul livello del mare, su un’altura scoscesa lungo la valle del Fino che conserva l’aspetto del borgo incastellato. Il borgo, che vanta origini antiche, incerte e avvolte nel mistero, risalenti all’epoca dei Sabini in cui è stata ipotizzata una presenza umana, è caratterizzato da una struttura tipica dei siti difensivi di epoca medioevale e domina il versante nord del percorso del fiume Fino, e ancora oggi è raggiungibile attraverso un’unica strada, tortuosa e piuttosto ripida. Nel tessuto edilizio sopravvivono, soprattutto nella parte più alta del colle, case databili tra il XVI e il XVIII secolo, le più antiche in pietra con architravi lignei alle aperture. Dell’antico castello resta in piedi un torrione quadrangolare con basamento a scarpa assai manomesso e pochi altri lacerti. Le murature sono in pietre semi lavorate, disposte a ricorsi regolari con poca malta. Il vano terragno della torre è coperto da volte a crociera e la struttura è databile al XIV secolo.
Più in basso sopravvivono a tratti le mura che racchiudevano il borgo e si nota un torrione rotondo dove una più antica struttura in pietrame appare inglobata nelle muraglie in laterizio della cinta fortificata di epoca successiva (XV-XVI secolo), della quale si notano i beccatelli e le caditoie. Di questa cinta fa parte anche la Porta da Pié ad arco ogivale e possenti travature lignee. Le date settecentesche che si rilevano su due mattoni probabilmente testimoniano restauri e risarciture dell’epoca. Anche da questa parte del paese le antiche mura furono inglobate dal muraglione di sostegno moderno realizzato intorno al 1935. In via dei Pensieri si notano, rimessi qua e là in opera nelle mura, alcuni pezzi erratici, provenienti con ogni probabilità da una chiesa diruta del paese: un blocco con scolpita una rosetta a sei petali e un frammento di parasta con decoro a motivo vegetale possono anche risalire al XII secolo, e un blocco con testina d’angelo sormontata da un fregio ad ovoli del XVI-XVII secolo.
Oggi l’unica testimonianza di quei tempi remoti è un tratto di strada nei pressi del fiume, probabilmente facente parte del tracciato della via che collegava Teramo alla potente Roma, passando per Monte Giove e Bisenti, fino a Penne. La prima notizia storica del paese risale all’età normanna, e precisamente al 1150: un documento di quell’anno, infatti, riferisce di un centro denominato Castellum Montis Sicci, specificando che apparteneva alla contea di Penne e che si trattava di un feudo del conte Roberto di Aprutio di appena 65 abitanti. Un altro documento, questa volta del 1273, ne parla invece come di un paese chiamato Mons Siccus (Montesecco), forse alludendo alla mancanza di sorgenti d’acqua. Certo è che nel 1454 l’odierna Montefino diventa feudo degli Acquaviva, che fecero restaurare il castello e le fortificazioni murarie.
Ancora oggi Montefino, nonostante il recente sviluppo commerciale e industriale, conserva l’umiltà che gli deriva dalla storia e dalla tradizione contadina, e passeggiare per i vicoli e le piazzette del suo bel centro storico è un’esperienza interessante che consente di riscoprire tutto il gusto e il fascino del passato. Di storia e tradizione contadina, Montefino custodisce gelosamente le sue antiche tradizioni, caratterizzandosi soprattutto per la produzione artigianale di sedie e cesti in vimini, a cui ancora oggi si dedicano molti degli anziani del paese ancora con la stessa passione e lo stesso orgoglio di un tempo seguendo le stesse tecniche e gli stessi rituali in uso da centinaia di anni e ad aiutare questo ‘ritorno ai bei tempi che furono’ è anche il mantenimento delle antiche tradizioni, come la coltura delle piante di ulivo, il ricamo su stoffa, le lavorazioni all’uncinetto. Uno spettacolo da non perdere, infine, è lo splendido panorama sulla vallata del Fino e i dintorni, ammirabile dalle varie terrazze esistenti in paese a giro d’orizzonte.
Da ammirare nel borgo la Chiesa della Madonna del Carmine del XIV secolo, chiesa antica che fu fondata nell’XI secolo e poi rimaneggiata nel Medioevo. I resti della vecchia chiesa si vedono da una parte della muratura a scarpa in cui è in rilievo un angelo, sono stati ristrutturata in forma barocca. Il portale della facciata è semplice con architrave e timpano ed il campanile è a torre. Poi troviamo la Chiesa di San Giacomo Apostolo del XVII secolo, che fu costruita in epoca romanica ma oggi è del tutto barocca che quasi nascosta tra le case del paese, rappresenta una piccola perla riservata ai veri intenditori, in grado di apprezzarne a fondo ogni singolo dettaglio.. Ancora oggi all’esterno della parrocchia è possibile ammirare, ben conservata, la traccia più importante e significativa del suo passato: lo splendido portale cinquecentesco proveniente dalla vicina Abbazia dei Celestini, oggi abbandonata, sita nell’area cimiteriale del borgo. Si comprende che non sono le sue qualità architettoniche a fare di questo luogo di preghiera una meta imperdibile per chi si trova a passare nella Valle del Fino, quanto i ‘tesori’ che custodisce al suo interno. Tra questi i bei reliquiari del ‘600 di scuola spagnola, tutti in legno dorato, tra cui ne spicca uno raffigurante lo stesso S. Giacomo con una Bibbia nella mano sinistra, sormontata da un’immagine del paese di Montefino. Da evidenziare la presenza di una preziosa croce processionale (croce astile) quattrocentesca, in rame dorato e argento, opera di Nicola Gallucci da Guardiagrele, gelosamente custodita dal parroco, la reliquia più preziosa del paese che rappresenta il bene di maggior valore di questo piccolo borgo, tanto che viene esposta ai fedeli solo in occasione delle principali festività religiose.
Chiudiamo la carrellata delle bellezze di Montefino con il castello degli Acquaviva che pur danneggiato da una serie di forti terremoti, conserva tuttavia una bella struttura caratterizzata dall’imponente torrione cilindrico. Nel 1454 Montefino divenne un feudo dei duchi Acquaviva di Atri, che fecero restaurare le fortificazioni murarie e l’antico castello. Di questo oggi resta un’unica traccia, rappresentata dal torrione a pianta quadrata con spesse mura che svetta sulla sommità del paese e al di sotto di questa fortezza che, su terrazze, si sviluppa il centro abitato, di cui fanno parte anche la Chiesa di S. Giacomo e un secondo castello, più recente, che, edificato dagli stessi duchi feudatari sul finire del XV secolo, prende il nome appunto da quella nobile famiglia, essendo noto proprio come Castello degli Acquaviva. Discretamente conservato, si estende attualmente sul versante est della odierna Montefino, sopra uno sperone di tufo, in una posizione decisamente panoramica, e può vantare ancora oggi una bella e consistente struttura, in gran parte corrispondente all’impianto originario. L’elemento più caratteristico è senza dubbio il torrione angolare cilindrico molto simile a quello del Castello di Cellino Attanasio, dotato di apparato a sporgere che rende la struttura, già di per sé imponente, visibile sin da lontano per chi, dalla valle, si approssima al colle che ospita l’antico borgo. Il loggiato superiore è stato trasformato in terrazza negli anni ‘50, e oggi è possibile notare due muri di rinforzo, i cosiddetti scarponi, che fu necessario costruire nel 1734 per riparare ai danni arrecati da un forte terremoto che scosse la zona nel 1707. Originariamente nel Castello era presente anche una seconda torre centrale cilindrica, il dongione, di cui gli amministratori locali si videro costretti a predisporre e attuare la demolizione nel 1933, a causa dei danneggiamenti riportati dalla struttura in seguito a un nuovo, fortissimo sisma, che ancora una volta devastò l’intera regione all’inizio degli anni trenta.
Foto by Abruzzomania
Fonti:
Montefino, il borgo in meditazione – Tesori d’Abruzzo (tesoridabruzzo.com)
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 54° Eccellenza, quella del comune di Ortona in provincia di Chieti, la sua straordinaria Cattedrale di San Tommaso. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 251, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Tutto ebbe inizio quando Gesù rivolgendosi a lui, dice: «”Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro e tuttavia credettero!“» Questo è lo straordinario episodio maggiormente noto del Nuovo Testamento che coinvolge Tommaso, contenuto in Giovanni 20,24-29 e noto come “l’incredulità di Tommaso“. Tommaso, che dubitava della risurrezione di Gesù, incontra il Signore risorto e noi oggi possiamo incontrarlo in un luogo molto vicino, a Ortona, nella basilica di San Tommaso Apostolo, la concattedrale dell’arcidiocesi di Lanciano-Ortona, dove si custodiscono le reliquie di Tommaso apostolo dal XIII secolo, che nel dicembre del 1859 papa Pio IX ha elevato alla dignità di basilica minore. Dal 6 settembre 1258, data dell’arrivo in Ortona delle Ossa dell’apostolo Tommaso, la storia del popolo ortonese si identifica con la vita che ruota intorno alla Tomba di San Tommaso. La notizia della presenza del corpo dell’Apostolo si diffonde rapidamente, i pellegrini affluiscono per rivolgersi a Lui, la Chiesa locale si fa promotrice di varie iniziative, i pontefici gratificano i fedeli con la concessione delle indulgenze.
La chiesa fu costruita nel IX secolo sul sito di un antico tempio romano, ma danneggiata dai Normanni nell’XI, quando era dedicata a Santa Maria Regina degli Angeli. Ricostruita completamente nel XII secolo, fu riaperta al pubblico il 10 novembre 1127 e dal 6 settembre 1258 custodisce le Ossa di san Tommaso apostolo, reliquie autentiche, riportate dall’isola di Chio da Leone Acciaiuoli. La cattedrale fu devastata da un terremoto del XV secolo, e ricostruita sotto forma barocca, tranne il portale del Trecento, danneggiata ancora nel 1799 dai francesi, lo fu gravemente ulteriormente nel 1943 durante la battaglia di Ortona (il purtroppo famoso Natale di sangue) e ricostruita in aspetto pseudo-neoclassico per quanto riguarda la facciata, rimontando il portale di Nicola Mancino e ricostruendo l’interno nella matrice barocca. Della chiesa sopravvive di storico soltanto la cappella del sacramento dell’Ultima Cena, con importanti fregi e bassorilievi barocchi e con un impianto semi-longitudinale a pianta a croce greca, con la facciata su Piazza San Tommaso, decorata dal portale rimontato in stile gotico, con lunetta ornata dal gruppo di San Tommaso tra santi. Un secondo portale si trova su vico dell’Orologio, dove si trovava la torre fortificata che fungeva anche da faro della città, distrutta nel 1943, ed è il meglio conservato dell’epoca medievale. Il cupolone che poggia su quattro pilastri all’interno della chiesa, è più slanciato rispetto all’originario. Il campanile è una torre in mattoni rossi, edificata abbattendo il vecchio campanile sopravvissuto al 1943 conserva il grande “campanone” del 1605. Al suo interno, oltre alla cripta delle reliquie posta sotto l’altare che custodisce le spoglie di San Tommaso, vi è il Museo Diocesano, dove sono raccolti molti pregevoli dipinti e sculture sacre, facenti parte della storia ortonese. Delle quattro cappelle, la seconda di maggior importanza è quella di San Tommaso, dove si trova il busto argentato, restaurata ampiamente, con mosaici e affreschi di Tommaso Cascella che ridipinse anche gli affreschi dell’interno della calotta cupolare e dei pennacchi angolari, con disegni allegorici. Nelle linee generali, l’edificio presenta uno schema longitudinale che sembra seguire il modello delle grandi basiliche pugliesi impostosi lungamente già nei primi decenni del Duecento.
Il 17 febbraio 1427 in questa chiesa è stata solennemente proclamata la pace tra le città di Lanciano e Ortona patrocinata da San Giovanni da Capestrano e nel 1566 subì l’assalto dei Turchi di Piyale Pascià e un incendio, che per fortuna non attaccò in modo irrimediabile il Corpo dell’Apostolo. Purtroppo nel 1799 la cattedrale subì nuovamente un’altra aggressione da parte dei Francesi, per cui fu ancora restaurata. Il 5 novembre del 1943, il vicario della diocesi, mons. Luigi Carbone, il parroco di S. Tommaso don Pietro Di Fulvio e don Tommaso Sanvitale si ritrovarono insieme per un’importante decisione: dove e come salvare il busto d’argento di S. Tommaso. I Tedeschi, infatti, avevano mandato segnali contrastanti, informandosi del peso e del valore venale del busto. Un comandante cattolico si era impegnato a risparmiare la cattedrale e la torre semaforica ed i tre sacerdoti, non sapendo a chi credere, dopo meditata riflessione, decisero di “murare” il busto dell’Apostolo al secondo piano del campanile, in un angolo scuro, ricoperto di legname umido abbandonato. Procedettero in assoluto segreto lo stesso giorno alle ore 14, aiutati da due muratori: Nicola Di Fulvio, fratello del Parroco, e Peppino Valentinetti.
Poi arrivò la furia devastatrice della guerra, che causò alla città di Ortona oltre 1300 vittime civili e la perdita di tutto il patrimonio edilizio, con la cattedrale che fu letteralmente sventrata, rimase in piedi a malapena la sacrestia, sia pure con il pavimento ricoperto di macerie. L’11 gennaio 1944, quando la linea del fronte si andava allontanando, mons. Tesauri, arcivescovo di Lanciano e vescovo di Ortona, fece demolire l’altare costruito sulla tomba di san Tommaso ed estrasse l’urna che rivide la luce dopo 150 anni. In corteo le Ossa dell’Apostolo furono trasferite nel rione Castello, a casa del parroco. L’avvocato Tommaso Grilli curò il recupero dei pezzi artistici andati in frantumi con la guerra, quelli relativi al portone principale di epoca sveva e al portale gotico di Nicola Mancino. Il 16 luglio 1945, su un palco allestito nella piazza della cattedrale, tra la commozione degli ortonesi rientrati dallo sfollamento, mons. Tesauri celebrò in ritardo la festa del Perdono ed il sacro busto, estratto dal muro dove era rimasto nascosto, venne nuovamente esposto alla venerazione dei fedeli. Le altre reliquie del santo furono ritrovate intatte sotto all’altare. La cattedrale ricostruita fu riaperta al culto e ridedicata il 5 settembre 1949, con una solenne cerimonia celebrata da mons. Gioacchino Di Leo, vescovo di Ortona e dal cardinale Federico Tedeschini.
All’interno della cattedrale vi sono straordinari reperti del XIII secolo. Gli affreschi della cupola sono del pittore Luciano Bartoli; la figura di San Matteo Evangelista è l’unica rimasta dopo la distruzione della basilica per opera dei tedeschi, che è stata eseguita da pittore Antonio Piermatteo. Le immagini della Via Crucis sono dell’artista ortonese Stefano Durante. Nella cripta il crocifisso pendente è stato eseguito dallo scultore Aldo D’Adamo. All’interno conserva interessanti bassorilievi e due altorilievi a stucco “Ultima Cena” e “Sinite Parvulos” della prima metà dell’Ottocento da Vincenzo Perez. Ai suoi lati sono visibili le due ceramiche “Gli ortonesi in Scio” e “L’arrivo a Ortona delle reliquie di San Tommaso” eseguite da Tommaso Cascella. In questa cappella è custodito il busto d’argento reliquario di San Tommaso Apostolo che contiene alcuni frammenti delle ossa del cranio: è il terzo in ordine di tempo, fuso dalla fonderia Pani di Napoli nell’aprile dell’Ottocento. Il primo fu rubato nel 1528 dalle milizie mercenarie, il secondo fu rubato dai Francesi nel 1799 e poi fuso. Sulle pareti della cappella si possono osservare due dipinti a olio del 1985 del pittore Franco Sciusco.
Il Museo diocesano vede raccolto il sui primo nucleo della collezione museale nel secondo dopoguerra al fine di conservare e tutelare le numerose e pregevoli opere artistiche che vanno dal XII al XIX secolo, provenienti dal Duomo e da altri edifici di culto del territorio, scampate alla distruzione dei bombardamenti patiti dalla città di Ortona durante la Seconda Guerra Mondiale. Le opere in esso conservate, esposte in tre vasti ambienti, occupati nei secoli passati da altrettante cappelle collegate alla chiesa maggiore, rappresentano il livello artistico e culturale raggiunto da Ortona nel corso della sua storia ma soprattutto sono una testimonianza concreta della volontà di salvaguardare il proprio patrimonio culturale a beneficio delle future generazioni, anche nelle sciagure più devastanti, come fu certamente la distruzione alla quale la Città fu sottoposta nel dicembre del 1943.
Ma parliamo un po’ del Santo. Secondo un’antica tradizione, SAN TOMMASO iniziò la sua opera di evangelizzare dalla Siria, passando poi in Mesopotamia, dove fondò la sua prima comunità in Edessa, l’attuale Sanliurfa turca, poi raggiunse Babilonia, dove fondò un’altra comunità presso cui visse sette anni. Quindi si spinse fino all’India sud-occidentale, che raggiunse via mare nell’anno 52, dove iniziò la predicazione nella città portuale di Muziris, dove viveva una fiorente colonia ebraica. Dopo aver convertito al cristianesimo gli ebrei e molti indiani, ciò aiutò Tommaso fondò numerose comunità cristiane in tutta la regione del Kerala. Dall’India si recò in Cina per poi tornare ancora in India sulla costa sud-orientale del Coromandel morendo a Mylapore e lì sepolto. Nel III secolo avvenne nel sud dell’India una delle prime violente persecuzioni anti-cristiane e i fedeli vollero salvare le ossa di San Tommaso trasportandole nella sua prima comunità, Edessa (circa nel 232), da cui, poi, vennero traslate nel 1146 circa in un luogo ritenuto ancora più sicuro: l’Isola di Chios. San Tommaso vi riposò fino a quando, nel 1258, arrivarono a Chios alcune galee armate che facevano parte della spedizione militare organizzata nell’Egeo da Manfredi, Principe di Taranto e futuro re delle Sicilie, desideroso di estendere il suo dominio in Oriente. Dopo il saccheggio dell’isola, il 10 agosto, il pio navarca Leone, comandante delle 3 galee di Ortona, aiutato da pochi compagni fidati, trafugò da Chios le ossa di S. Tommaso e la lapide marmorea che le copriva, spiegando immediatamente le vele per l’Italia. Ma chi era Tommaso? Tommaso Didimo (cioè gemello) (Galilea, I secolo a.C. – Mylapore, 3 luglio 72) era pescatore sul lago di Genezareth ed è stato uno dei dodici apostoli di Gesù. È noto principalmente per essere il protagonista di un episodio della vita di Gesù, attestato dal solo Vangelo secondo Giovanni (20,24-29), in cui prima dubitò della risurrezione di Gesù e poi lo riconobbe. Quando i discepoli riferirono a Tommaso che avevano visto il Signore, lui stenta a crederci e afferma che se non lo vedrà con i suoi stessi occhi e non lo toccherà con le sue mani non crederà (Gv. 20, 25), Otto giorni dopo la Pasqua, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso che, partito da una condizione di incertezza e di dubbio, giunge alla più bella espressione di fede. Secondo la tradizione cristiana, si spinse a predicare il Vangelo fuori dei confini dell’Impero romano, in Persia e India, dove fondò la prima comunità cristiana. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa copta.
Negli Atti di Tommaso, testo gnostico del III secolo, si racconta che l’apostolo fu ucciso trafitto da una lancia, per ordine del re Misdaeus (Vasudeva I). Il martirio avvenne su una collina nei pressi dell’attuale Chennai, capitale del Tamil Nadu, il 3 luglio 72. San Tommaso fu sepolto a Mylapore, nell’India sud-orientale. Nel III secolo avvenne nel sud dell’India una persecuzione anti-cristiana. I fedeli salvarono le ossa di Tommaso trasportandole a Edessa (odierna Şanlıurfa, nella Turchia sud-orientale), il centro irradiatore del cristianesimo siriaco in Oriente, cui era legata la predicazione di San Tommaso. Successivamente furono traslate sull’Isola di Chio, nell’Egeo. Nel 1523 i portoghesi operarono un primo scavo nelle fondamenta della basilica denominata «casa di San Tommaso» (meta di pellegrinaggio dei cristiani dell’India) dove, secondo la tradizione, si trovava la tomba dell’apostolo. Sia nella Chiesa ortodossa siriaca del Malankara sia nella Chiesa cattolica, San Tommaso è festeggiato il 3 luglio: a Madras si trova la cattedrale di San Tommaso. Nel 1258 navarca ortonese, il pio Leone Acciaiuoli, insieme con i commilitoni, riportò sulla galea il corpo dell’Apostolo e la pietra tombale, dall’isola greca di Chios. Stando ai racconti degli storici abruzzesi Giovan Battista de Lectis e Giovanni Pansa, il capitano Leone partì con delle galere da Ortona per Chios, dove doveva svolgere degli incarichi per conto di re Manfredi di Svevia che aspirava non solo a conquistare l’Italia settentrionale, come in parte fece, ma anche a diventare imperatore d’Oriente. Nell’isola Leone fu avvicinato da un pellegrino che gli narrò la presenza di una grotta con il sepolcro del santo. Lo stesso Pansa ricorda che Leone, entrato nella grotta, fu abbagliato da una enorme luce, con una mano uscente da un foro, che gli indicò il luogo della sepoltura. Leone fu miracolato dalla cassa che riportò a Ortona con la nave perché come ricorda anche De Nino negli “Usi e costumi abruzzesi“, una luce molto forte guidò come un faro, sull’albero maestro, la nave di Leone, mentre la nave dei greci che lo inseguiva furibonda, fu come bloccata sul mare, e affondata da una tempesta. De Nino aggiunge il particolare dell’arrivo della cassa a Ortona, sulla salita del castello, sopra un carro di buoi, che si fermarono ginocchioni davanti alla cattedrale di Santa Maria degli Angeli, poi reintitolata al santo. Era il 6 settembre 1258. A Leone Acciaiuoli è dedicato l’istituto nautico di Ortona. Il pittore Tommaso Cascella nel restaurare la cappella dedicata al santo nella cattedrale di Ortona, realizzò un pannello a mosaico che ritrae il miracolo dell’apparizione a Leone Acciaiuoli, presso l’isola di Chios in Grecia. Il racconto che segue è fornito da Giambattista De Lectis, medico e scrittore ortonese del 1500: “Dopo il saccheggio, il navarca ortonese Leone si recò a pregare nella chiesa principale dell’isola di Chios e fu attratto da un oratorio adorno e risplendente di luci. Un anziano sacerdote, attraverso un interprete lo informò che in quell’oratorio si venerava il Corpo di san Tommaso apostolo. Leone, pervaso da un’insolita dolcezza, si raccolse in preghiera profonda. In quel momento una mano luminosa per ben due volte lo invitò ad avvicinarsi. Il navarca allungò la mano ed estrasse un osso dal foro più grande della pietra tombale, su cui erano incise delle lettere greche e raffigurato un vescovo nimbato a mezzo busto ed ebbe la conferma di quanto gli aveva detto l’anziano sacerdote di trovarsi effettivamente in presenza del corpo dell’Apostolo. Tornò sulla galea e progettò il furto per la notte successiva, insieme al compagno Ruggiero di Grogno. I due sollevarono la pesante lapide e osservarono le reliquiesottostanti. Le avvolsero in candidi panni, le riposero in una cassetta di legno (conservata ad Ortona fino al saccheggio del 1566) e le portarono a bordo della galea. Leone, poi, insieme con altri compagni, tornò nuovamente nella chiesa, prese la pietra tombale e la portò via. Appena l’ammiraglio Chinardo venne a conoscenza del prezioso carico trasferì tutti i marinai di fede musulmana su altre navi e ordinò di prendere la rotta verso Ortona. La galea che recava le Ossa dell’Apostolo navigò in modo più sicuro e veloce delle altre ed approdò al porto di Ortona il 6 settembre 1258.” Secondo il racconto di De Lectis, fu informato l’abate Iacopo responsabile della Chiesa ortonese, il quale predispose tutti gli accorgimenti per un’accoglienza sentita e condivisa da parte di tutto il popolo. Il 6 settembre 1258 Leone e le sue 3 galee entrarono nel porto di Ortona e la popolazione portò in processione ossa e lapide fino alla Chiesa Madre di S. Maria degli Angeli, trasformata nei secoli in Cattedrale e Basilica e cambiando anche il nome, dove San Tommaso ancora riposa, ormai da più di 750 anni. Da allora il corpo dell’apostolo e la pietra tombale sono custoditi nella cripta della Basilica. Nel 1259 una pergamena redatta a Bari dal giudice ai contratti Giovanni Pavone, alla presenza di cinque testimoni, conservata a Ortona presso la Biblioteca diocesana, conferma la veridicità di quell’avvenimento.
Nel 1475, alcuni gentiluomini ortonesi, con la speranza di arricchirsi, concordarono di asportare le Ossa di san Tommaso per offrirle al Signore di Venezia. L’unica chiave, che apriva la serratura della cassetta contenente i resti mortali dell’Apostolo, era custodita da don Mascio, che divenne loro complice. Il tentativo, perpetrato di notte, non riuscì perché i rei ebbero l’impressione di sentire la voce dell’Apostolo che ammoniva: “lassa stare”. Impauriti fuggirono, ma la notizia si diffuse rapidamente in città. Seguirono inchieste e arresti e contemporaneamente furono costruite le inferriate con catene e aumentate le chiavi fino a cinque. Da quel momento in poi, la custodia delle sacre Ossa divenne un incarico prestigioso e di forte responsabilità, affidato contemporaneamente a due consiglieri, eletti dal Consiglio cittadino, e ai canonici scelti dal Vescovo della Diocesi. Oggi le reliquie sono riposte sotto l’altare della cripta in un’urna di rame dorato con effigie realizzata nel 1612 dal pittore ortonese Tommaso Alessandrini.
Negli Atti di Tommaso, il martirio dell’Apostolo viene narrato in questi termini: “[…] Quand’ebbe terminata la suddetta preghiera, disse ai soldati: Su, eseguite gli ordini di chi vi ha inviato. Quelli vennero e lo trapassarono tutt’insieme con le lance. Cadde e morì”. Gli Acta Tomae, scritti originariamente in siriaco ad Edessa probabilmente alla scuola di Bardesane, gnostico del terzo secolo, sono giunti fino a noi con diverse interpolazioni e rifacimenti latini, quali il De Miraculis B. Thomae apostoli di san Gregorio di Tours e la Passio sancti Thomae. Gli Atti di Tommaso, pubblicati dalla collana biblica della casa editrice Marietti nel 1965, sono divisi in tredici capitoli e si chiudono con l’ultimo che parla del martirio di san Tommaso. Diamo una rapida sintesi dell’ultimo capitolo. Nell’ottavo e ultimo capitolo, Tommaso, trasportato su un alto monte, finisce ucciso a colpi di lancia dai bramini e il suo corpo trasportato ad Edessa. Gli antichi martirologi siriaci hanno identificato la data del martirio nel 3 luglio del 68, mentre i cristiani del Coromandel ritengono l’anno 72 la data del martirio.
Attualmente sono cinque le prove della presenza dell’Apostolo in Ortona: 1. la pietra tombale, riconducibile all’arte siro-mesopotamica, è databile al terzo – quinto secolo sia sotto il profilo paleografico sia dal punto di vista iconografico. In essa è raffigurata una immagine a mezzo busto di uomo nimbato e benedicente con ai lati una scritta in caratteri greci onciali (o osios thomas, cioè San Tommaso, termine osios che era usato con il significato di santo solo nei primissimi secoli del Cristianesimo). Nella parte inferiore della lapide, poi, si aprono due fori di diversa dimensione come quelli presenti nelle tombe dei martiri, sempre dei primi secoli, e di San Paolo, per le reliquie da contatto e per le libagioni. La pietra tombale, portata a Ortona da Chios insieme alle reliquie dell’Apostolo, attualmente è conservata nella cripta della Basilica di San Tommaso, dietro l’altare. L’urna contenente le ossa, invece è posta sotto l’altare. La lapide ha le dimensioni di cm. 137 x cm. 48 e lo spessore di cm.52 circa. Essa è il coperchio di un finto sarcofago, forma di sepoltura abbastanza diffusa nel mondo paleocristiano, quale parte superiore di una tomba di materiale meno pregiato. La lapide presenta un’iscrizione ed un bassorilievo che rinviano, sotto molti punti di vista, all’area siro-mesopotamica. Essa è databile dal punto di vista paleografico e lessicale al III-V secolo, epoca in cui il termine osios viene ancora usato quale sinonimo di aghios, nel senso che santo è colui che è nella grazia di Dio ed è inserito nella Chiesa, i due vocaboli, di conseguenza, indicano i Cristiani. Nel caso particolare della lapide di san Tommaso, poi, la parola osios può essere agevolmente la traduzione del termine siriaco mar (signore), attribuito nel mondo antico, ma anche ai giorni nostri, sia ad un santo sia ad un vescovo. Con tale termine, pertanto, si voleva indicare l’apostolo come primo vescovo della chiesa locale.
Guardando con più attenzione l’iscrizione, è possibile notare che sopra le due parole sono tracciati dei segni che rinviano alle indicazioni paleografiche per la presenza di abbreviature per contrazione: in tal caso le parole potrebbero significare il reale san Tommaso. Al centro della lapide è stato inciso un bassorilievo con l’immagine di un religioso, nimbato, in atto di impartire, con la mano destra, la benedizione (secondo il rito della Chiesa Orientale ed indicante le prime due lettere, in greco, della parola Cristo). Nella sinistra tiene un oggetto solitamente inteso come una croce, ma il patibulum è troppo corto. Potrebbe essere anche una spada, con chiaro riferimento al martirio del Santo. Infatti gli Atti di Tommaso parlano di morte per un colpo di lancia o di spada. L’ultima ricognizione delle ossa del Santo, effettuata nel 1984, ha dimostrato che l’individuo aveva ricevuto un fendente in pieno volto poco prima o immediatamente dopo il decesso. Se invece si vuole attribuire un significato ampiamente teologico, allora possiamo indicare “la spada dello Spirito”, che nell’ottica cristiana, diventa con la croce speculare strumento per il trionfo della forza della Parola. Iconograficamente il bassorilievo non discorda dalle caratteristiche artistiche dell’area siro-mesopotamica dei primi secoli dell’era cristiana. Significative, in particolare, sono le somiglianze con l’immagine di Aronne ritrovata nella sinagoga di Doura Europos datata al 250, e di alcune lapidi tombali, databili al I-II secolo, provenienti dall’area cimiteriale di Edessa. Nella parte bassa della lapide, inoltre, sono presenti due fori di differenti dimensioni, come quelli che si ritrovano in varie sepolture dei primi secoli del Cristianesimo, e in quella di San Paolo, al fine di introdurre balsami o fare libagioni sulla tomba del defunto. Quando si trattava della tomba di un martire, quello più ampio serviva anche per fornire reliquie da contatto.
2. la pergamena del 1259, conservata presso la biblioteca diocesana di Ortona, venne redatta a Bari dal giudice ai contratti G. Pavone, alla presenza di cinque testimoni. Un’altra pergamena dello stesso notaio, datata 1261 e riportata in un Codice barese, dimostra l’autenticità del documento, oltre la scrittura minuscola cancelleresca, le abbreviazioni ed altri elementi caratteristici del tempo storico di riferimento.
3. La reliquia di San Tommaso apostolo conservata a Bari è un osso radio sinistro, mancante nel corpo di Ortona, complementare e compatibile con lo stesso corpo. Il Cronicon barese chiarisce che un vescovo francese, cugino di Baldovino di Le Bourg signore di Edessa, nel 1102, di ritorno dalla Terra Santa e da Edessa, lasciò a Bari, presso la basilica di San Nicola, la reliquia di san Tommaso apostolo.
4. La ricognizione scientifica del 1984. Numerose sono state le ricognizioni scientifiche delle Ossa di san Tommaso, a partire dalla prima del 1575, ma la più significativa sotto l’aspetto scientifico fu l’ultima, eseguita con tutte le operazioni prescritte, durata dal 12 settembre 1983 al 25 aprile del 1986. La ricognizione ebbe inizio con l’estrazione del cranio dell’Apostolo dal busto d’argento custodito nell’urna posta al centro dell’altare della cappella dedicata a San Tommaso, proseguì con l’apertura del sarcofago e della cassetta contenente le reliquie di San Tommaso apostolo, e successivamente con l’esame macroscopico del cranio e dei reperti contenuti nell’urna metallica. La commissione era costituita dal prof. dott. Arnaldo Capelli, preside della facoltà di medicina dell’Università di Chieti, prof. dott. Sergio Sensi direttore dell’Istituto di clinica medica dell’Università di Chieti, prof. dott. Luigi Capasso docente di paleopatologia dell’Università di Chieti, prof. dott. Fulvio Della Loggia aiuto clinica medica Università di Chieti. La perizia antropologica sui resti dello scheletro doveva stabilire: -i segmenti scheletrici sicuramente riferibili al cranio di san Tommaso, – attribuzione del sesso, dell’età alla morte e dell’epoca relativa, – rilevare eventuali condizioni patologiche, – riordinare il materiale scheletrico ai fini di una migliore conservazione. Come approfondimento degli studi furono anche effettuate indagini istologiche ed istochimiche. Le reliquie ricomposte furono esposte alla pubblica venerazione e poi si procedette alle operazioni per l’intervento conservativo. I lavori si conclusero con la sistemazione delle reliquie, la chiusura del cilindro e la sua sistemazione, dopo interventi tecnici altamente specializzati sotto l’altare della cripta, dove tuttora il corpo dell’Apostolo è conservato. Tutte le relazioni dei consulenti sono pubblicate sugli Atti. Questa la sintesi conclusiva: “Questo individuo appartenne ad un soggetto longitipo, con ossatura gracile, di aspetto minuto, con statura di 160+ – 10 centimetri, di età scheletrica alla morte compresa tra i 50 e i 70 anni, affetto da una forma particolare di spondiloartrite archilopoietica con localizzazioni anche alle piccole articolazioni delle mani, portatore di un piccolo osteoma del cranio in regionefrontale e di ossa soprannumerarie lungo una delle suture della volta cranica. Detto individuo mostra le tracce di una frattura dell’osso zigomatico destro provocata da un affilato fendente poco prima o poco dopo il decesso.”
5. Le rivelazioni di Brigida Birgersdotter che nacque in Svezia, nel 1303, da famiglia aristocratica in un tempo in cui i cittadini scandinavi erano tutti cattolici. A diciotto anni Brigida fu costretta dal padre a sposare il giovane Ulf Gudmarsson ed alla coppia nacquero otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Una di esse sarà Santa Caterina di Svezia. Nel biennio 1341-1343 Brigida effettuò un pellegrinaggio in Spagna a San Giacomo di Compostela.
Dopo la morte del coniuge, Brigida diede una svolta alla sua vita, indossò l’abito cinerino del Crocifisso, simbolo di povertà e di penitenza, ed entrò in un monastero cistercense. Trascorreva il tempo nella meditazione e nella contemplazione, spesso cadeva in estasi e riceveva molte rivelazioni che poi dettava al suo confessore. Proprio in quel periodo concepì l’idea di fondare un ordine religioso. La santa le riceveva in uno stato di veglia e di estasi, a volte aveva visioni, altre volte ascoltava voci senza capire chi parlasse. Le parole in latino, ascoltate nell’estasi, rimanevano impresse nella memoria della santa, finché i suoi segretari non le avessero trascritte. Poi Brigida ricontrollava scrupolosamente lo scritto per assicurarsi che la versione fosse corretta. Le sue erano rivelazioni private, vagliate prudentemente da molti padri del Concilio di Costanza e di Basilea, che furono ritenute veritiere dai papi Gregorio XI, Urbano VI e Bonifacio IX, il papa che concesse la prima indulgenza a chiunque avesse pregato sulla tomba di San Tommaso in Ortona. Secondo la tradizione locale, Brigida visitò due volte la tomba dell’Apostolo in Ortona. Un’antica chiesa di Arielli a lei dedicata, in memoria del suo passaggio, e il cippo posto davanti alla chiesa di San Rocco, a Porta Caldari di Ortona, testimoniano ancora oggi il pellegrinaggio della santa nella nostra città. Nel 1365 Brigida si recò ad Assisi per visitare la tomba di San Francesco, dove si trattenne per qualche tempo, poi si diresse verso il sud per andare a pregare sulle tombe degli apostoli: San Tommaso ad Ortona, san Matteo a Salerno e sant’Andrea ad Amalfi. Come riporta il processo di beatificazione, citato da Antonio Politi parroco della cattedrale di San Tommaso dal 1964 al 2000, Santa Brigida giunse in Ortona ad estate inoltrata, in un periodo tra il 1365 e il 1370. Subito dopo la santa si recò sulla tomba dell’Apostolo, dove ebbe la seguente rivelazione: “Allora udì una voce che diceva Io sono il Creatore di tutte le cose e il Redentore….si deve dire e predicare in maniera molto sicura che come i corpi degli apostoli Pietro e Paolo sono a Roma,, così le reliquie di san Tommaso mio apostolo sono in Ortona. Poi le apparve Tommaso e le disse: ti darò il tesoro desiderato ormai a lungo da te. Nello stesso momento, senza che nessuno toccasse la cassa contenente le ossa dell’apostolo, apparve un frammento del dito di Tommaso, che Brigida conservò gelosamente e che oggi si conserva nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma.” Brigida morì il 23 luglio del 1373 e fu canonizzata il 7 ottobre 1391. Nel processo di beatificazione, il 31 agosto 1379, la figlia raccontò tutto quello che era successo in Ortona, dal momento che era presente anche lei. Riferì che era stata due volte in Ortona per visitare la tomba dell’apostolo Tommaso. Il sarcofago era ben chiuso, ma nonostante questo, ella vide con i propri occhi che un pezzo di osso del dito dell’Apostolo uscì dalla cassa sigillata e si pose nelle mani di Brigida. Poi raccontò che la madre aveva tanto desiderato possedere una reliquia dell’apostolo e nel primo viaggio aveva fervidamente pregato per ottenere questo miracolo. San Tommaso le era apparso e le aveva detto: “Torna qui e io soddisferò il tuo desiderio“. La figlia concluse il racconto dicendo che tutta Ortona parlava dell’avvenimento straordinario. Le rivelazioni di santa Brigida di Svezia, riferite dallo scrittore ortonese del Mille e Cinquecento De Lectis, sono state tradotte nel 2005 da Antonio Falcone.
Una informazione importante è quella relativa al fatto che il Tesoro della basilica di San Nicola di Bari dove sono custoditi moltissimi reliquiari, tra essi vi è quello contenente una Reliquia Ossea attribuita all’Apostolo Tommaso. Il reliquiario viene fatto risalire al 1602-1618 ha la forma di un braccio destro che impugna una lancia, nella iconografia antica simbolo del martirio subito dall’Apostolo, e poggia su una base contenente una reliquia della Maddalena. E’ possibile perciò che l’osso radio di Bari e le Reliquie di Ortona siano appartenute, in vita, allo stesso soggetto. La mancanza nelle Reliquie custodite in Ortona dell’osso radio sinistro rende la Reliquia portata a Bari nel 1102 compatibile e complementare con quelle portate in Ortona da Chios nel 1258. Un’ultima nota relativa ai pellegrinaggi collegati alla figura di San Tommaso che conducono al borgo marinaro di Ortona. Nel XVI secolo il missionario gesuita Francesco Saverio fece tappa nella città di san Tommaso, come attesta la sua biografia pubblicata da padre Giuseppe Massei nel 1851. In città esisteva una chiesa omonima dov’era custodito il «corpo dell’Apostolo», meta di pellegrinaggio sia per gli abitanti del luogo che per i coloni portoghesi. Il Cammino di San Tommaso è un antico pellegrinaggio iniziato nel XIII secolo e riscoperto nel XX secolo. Dopo la traslazione delle reliquie di San Tommaso ad Ortona, vari pellegrinaggi furono organizzati dalla Città Santa di Roma fino al borgo marinaro della costa teatina. Il pellegrinaggio moderno prevede anche viaggi a Santiago di Compostela e Gerusalemme, nonché al santuario di Santa Brigida, avendo la donna visitato in vita per ben due volte la tomba di Tommaso Apostolo ad Ortona e si articola anche nelle seguenti tappe: Roma-Albano Laziale-Lariano-Genazzano-Subiaco-Cappadocia-Tagliacozzo-Massa d’Albe-Rocca di Mezzo-Fontecchio-Capestrano-Torre de’ Passeri-Pretoro-Orsogna-Crecchio-Ortona. Nel 1933 le ferrovie dello Stato dovettero approntare treni speciali diretti a Ortona per far fronte alla massa dei pellegrini.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 53° Eccellenza, quella del comune di Bugnara in provincia di L’Aquila con il suo magnifico borgo fortificato immerso nei Parchi d’Abruzzo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 252, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Bugnara è uno splendido borgo fortificato che sorge nel cuore dei parchi d’Abruzzo perché la zona in cui si trova è circondata da tre delle quattro aree protette che hanno fatto attribuire all’Abruzzo il nome di “Regione Verde d’Europa”: il Parco Regionale Sirente-Velino a nord, il Parco Nazionale della Majella ad est e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio eMolise a sud-ovest. L’origine del nome è sconosciuta, tuttavia alcune ipotesi formulano che il termine Bugnara derivi da “Bonae Ara” indicante un altare dedicato alla dea Bona o Cerere, tempio trovantesi verosimilmente sotto la chiesa della Madonna della Neve sempre a Bugnara, visto che sotto questa chiesa vi è un tempio pagano con pavimento in opera spicata, ove è stata portata alla luce una lapide con delle decorazioni che raffigurano delle sacerdotesse che stanno compiendo un rito. Un’altra ipotesi vuole Bugnara derivante da “Vignae Ara” per via delle coltivazioni di vigneti nei dintorni della cittadina abruzzese.
Il borgo medievale fortificato domina dall’alto tutta la Valle Peligna e l’abitato è quasi completamente concentrato intorno al suo centro storico posto ai piedi della Rocca, dominata dal Castello Ducale e si trova su una collina a 580 m. sul mare, ai piedi del Colle Rotondo nei pressi del fiume Sagittario.
Camminando per le strade di Bugnara si notano gli elementi di portoni, balconi, architravi, ringhiere, tutti piccoli indizi di un lontano passato, per arrivare infine alla cima cioè al Palazzo Ducale. Il paese, infatti, ha la tipica forma a triangolo caratteristica del Medioevo, con le case tutte rigorosamente di pietra attaccate l’una all’altra quasi a volersi dare reciproca protezione ed i vicoli stretti e ripidi che, salendo verso l’alto, ed erti e salgono verso l’apice in cui vi è la rocca, al vertice della figura geometrica da cui domina il Palazzo Ducale. Noto come il “Castello” ed anche “Rocca dello Scorpione”, è datato intorno al XII secolo. La sua costruzione si deve alla nobile famiglia Di Sangro a cui era stato concesso il feudo di Bugnara e che lo abitò fino al 1500.
Il Palazzo, trovandosi nella parte più alta del paese, sembra delimitare il confine tra il centro abitato, compatto e poco esteso, e i vasti spazi aperti della montagna, regno incontrastato di pastori e greggi. Ancora oggi sono visibili le tracce degli antichi tratturi, utilizzati fin dall’epoca romana, che nel periodo della transumanza venivano ininterrottamente calpestati al ritmo scandito dalle stagioni poiché la pratica dell’allevamento ovino rappresentava il sostegno principale dell’economia, della società e della cultura del paese. Nelle zone adiacenti vi sono dei tratturi utilizzati con una certa frequenza nei tempi passati.
Monumenti interessanti di Bugnara sono anche la chiesa della Madonna del Rosario costruita tra il XVI ed il XVII secolo in stile barocco con fregi e dorature che all’interno conserva affreschi sulla volta e stucchi cinquecenteschi e la chiesa della Madonna della Neve conosciuta anche come chiesa delle Concanelle. La tradizione vuole che questa sia stata edificata sui resti di un tempio romano dedicato alla dea Cerere, venerata dalle genti peligne quale divinità preposta alla fecondità della terra, a cui si facevano offerte di grano per celebrare la fine del raccolto e per propiziare la ricchezza di quello futuro.
Non a caso il paese ospita “Romantica”, il festival internazionale dedicato all’arte floreale. Nel mese di agosto i migliori fioristi di tutto il mondo si ritrovano e creano delle vere e proprie opere d’arte per valorizzare gli angoli più suggestivi del paese. Realizzano abiti e gioielli floreali che modelle del posto indossano durante la serata finale della manifestazione, che si conclude in una “Romantica” notte bianca con musica, danze, cibo e tanto altro.
Le prime notizie documentate sul borgo sono rilevabili dal VI secolo anche se alcuni ritrovamenti denotano che il paese è abitato da molto prima. Nell’anno 1000 viene costruita la chiesa della Madonna della Neve. Nel 1079 il borgo risulta feudo di Simone di Sangro ed il feudo rimane a questa famiglia fino all’estinzione del casato nel 1759 con Vittoria Mariconda di Sangro. Nell’XI secolo si ebbe la costruzione del palazzo ducale per mezzo della medesima famiglia. Sempre i di Sangro ricostruirono la chiesa della Madonna della Neve nel 1361. Nel 1442 venne istituita la Regia Dogana della Mena delle Pecore di Foggia che portò a Bugnara lauti introiti visto che dipendeva dal pascolo. Nel 1706, nel 1933 e nel 1984 Bugnara fu interessata da gravi terremoti, in particolare quello del 1984 rese inagibili le chiese del borgo per parecchio tempo.
Infine una nota meritano alcuni palazzi gentilizi tra cui si segnalano il già citato Palazzo Ducale Di Sangro – Rocca dello Scorpione o Castello ducale medievale costruito nel XII secolo dalla famiglia di Sangro, che lo abitò fino al 1500. Il palazzo Corrado, il più grande di Bugnara, costruito nel XVIII secolo sopra case preesistenti in tipico stile tardo barocco romano e Palazzo Papi risale al XVII secolo, nel 1732 è stato comprato dalla famiglia Papi, da cui il nome.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 52° Eccellenza, , quella del comune di Lanciano in provincia di Chieti, con il Miracolo Eucaristico. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 253, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
“Il miracolo eucaristico di Lanciano si è verificato nella città abruzzese di Lanciano nella prima metà dell’VIII secolo: mentre un sacerdote stava celebrando la messa, al momento della consacrazione l’ostia e il vino si sono trasformati in carne e sangue. Le famose reliquie del Miracolo Eucaristico di Lanciano, il più antico e noto miracolo eucaristico della storia documentato, si trovano a Lanciano all’interno della Chiesa Santuario di San Francesco o Santuario del Miracolo Eucaristico annessa all’omonimo convento dei frati Minori Conventuali nello storico quartiere Borgo.”
“Tutto ebbe inizio nel vecchio convento di San Legonziano, primitivo edificio convento dei Santi Legonziano e Domiziano, che compone oggi le fondamenta del nuovo convento francescano del XIII secolo, che sarebbe sorto, secondo la tradizione, sui resti di un’antica chiesetta eretta nel luogo in cui sarebbe stato ucciso il centurione lancianese Longino, colui che si convertì dopo aver trafitto il costato di Cristo in croce. Quella di Longino è un’altra straordinaria storia che lega Lanciano in modo potente alla figura di Gesù Cristo. Annoverare in un unico luogo dove si verificò il primo incredibile Miracolo Eucaristico della storia e dove fu ucciso il centurione che inferse con la lancia la famosa ferita al costato di Gesù in croce che diede luogo al miracolo dell’uscita di acqua dal suo petto, è qualcosa di meraviglioso e su cui si potrebbe, e non per mero business, organizzare una strategia di turismo religioso senza precedenti. Ma torniamo al Miracolo Eucaristico!”
“Il convento, con l’annessa chiesa, fu affidato a un gruppo di monaci di rito greco, i Basiliani (VIII secolo) e in questo luogo si verificò il famoso “Miracolo Eucaristico di Lanciano” che avvenne in un anno imprecisato del 700 d.C., quando i Basiliani avevano in custodia il monastero. Essi si trasferirono a Lanciano nel periodo in cui Leone III Isaurico iniziava la persecuzioni iconoclaste; alcuni discepoli di San Basilio (329-379), vescovo di Cesarea, si trasferirono verso occidente nella città di Anxanum e secondo la tradizione un monaco basiliano, che a causa dell’assenza di fede dubitava del miracolo della Resurrezione, celebrando la messa vide l’ostia consacrata tramutarsi in carne viva, e il vino del calice in sangue poi coagulatosi in cubetti rossi. Non si hanno molti documenti al riguardo, a causa di dispersione del materiale, così che il primo documento ufficiale risale al 1631, e riferisce nei minimi particolari l’accaduto del miracolo. Nei pressi del presbiterio della chiesa si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove è narrato l’evento. Altre ricognizioni si ebbero negli anni a seguire, specialmente quelle scientifiche degli anni ’70 del Novecento. I monaci Basiliani stettero a Lanciano fino all’XI secolo, quando vennero cacciati dalla città perché si macchiarono di misfatti come omicidi e rapine. Il monastero andò in custodia alla fiorente abbazia di San Giovanni in Venere dell’ordine benedettino. Il fatto fece scatenare polemiche interne tra i vescovi di Lanciano, perché la chiesa fungeva da parrocchia ed era una delle principali della città, avendo perso tutti i benefici, i diritti e le rendite sui terreni. La contesa fu risolta con l’elevazione a parrocchia della vicina chiesa di Santa Lucia, edificata sopra il tempio di Giunone che venne eretta, in stile gotico, tra il 1252 e il 1258 dai frati Minori Conventuali divenendo una delle prime chiese conventuali in Abruzzo, sulla sottostante chiesa di San Legonziano, luogo di culto che fu lo scenario del miracolo eucaristico.”
“Insediatisi a Lanciano nel 1240-50, i Francescani vivevano la precarietà distintiva dell’Ordine, e collaboravano con il clero cittadino ed ebbero in quel periodo la possibilità di ricostruire il vecchio convento con una nuova chiesa, dotata di complesso monastico, con atto del 3 aprile 1252 ed iniziata in quell’anno, la chiesa venne completata nel 1258 sopra le fondamenta del convento di San Legonziano. Tra il 1730 e il 1745 il santuario fu oggetto di massicci interventi di adeguamento ai canoni estetici del periodo, che gli conferirono l’attuale aspetto barocco, con navata unica ampia ed alta. Nel 1809 in seguito alle vicende storiche dell’occupazione francese del Regno di Napoli, gli Ordini furono soppressi, i beni ecclesiastici furono trasferiti ai privati, e così il convento di San Francesco venne chiuso, eccezione per la chiesa. I frati poterono tornare solo il 21 giugno 1953, quando gran parte del monastero era stata cambiata, adibita prima a caserma, poi a uffici e scuole. L’Arcivescovo di Lanciano Monsignor Benigno Migliorini permise la riapertura del convento, che però venne successivamente riconvertito in ostello per i pellegrini del Miracolo Eucaristico. Il 4 novembre 1974 il santuario fu visito dal Cardinale Karol Wojtyla. L’opera di restauro in occasione del Giubileo del 2000 ha restituito alla chiesa il suo splendore settecentesco.
Il portale bronzeo dalla tipica formazione ogivale d’impronta borgognosa francese, stupendamente lavorato, dato in dono nel 1975 da un benefattore che sostituisce quello antico in legno, reca impresso sulla lunetta “S. Francesco in posa di saluto“. Nella parte inferiore della lunetta è rappresentata la leggenda del Miracolo Eucaristico, sul lato sinistro incisa la scena del miracolo di Santa Chiara sui Saraceni, e il miracolo di Sant’Antonio con la mula. In basso verso il lato sinistro è rappresentato il Sacrificio del Beato Massimiliano Kolbe nei campi di sterminio; sul lato destro è rievocato l’Anno Santo 1975. L’ex convento è chiamato oggi “Casa San Francesco“.”
“Sul lato sinistro della navata unica, sono posti gli altari in onore della “Madonna delle Grazie”, della “Madonna del Rosario” e di “Sant’Antonio di Padova”. Sul lato destro sorgono gli altari della “Vergine degli Angeli”, di “San Francesco d’Assisi” e del “Miracolo Eucaristico“, dove si trovava prima della ricollocazione presso l’altare maggiore. La grata cubica, in ferro battuto decorato, fu realizzata da artigiani di Guardiagrele, e servì a custodire le reliquie del Miracolo dal 1636 al 1902 nella “Cappella Valsecca“, celate da una tela raffigurante il Miracolo stesso. All’epoca il Miracolo si poteva vedere solo in due occasioni: il Lunedì dell’Angelo e ciascun giorno dell’ultima settimana di ottobre. Il baldacchino che ricopre il tronetto delle Reliquie realizzato in marmo bianco di Carrara è sostenuto da quattro colonne lavorate, con le splendide figure dei due angeli inginocchiati, a destra e sinistra, in atto di adorare.”
“Ecco alcune piccole meraviglie interne: la Cappella della Riconciliazione la cui scala è un invito a salire la vetta della perfezione cristiana, il cielo azzurro dipinto sulla volta raffigura il Regno di Dio. La Cappella dell’Adorazione in cui si conservò il Miracolo fino al 1636, prima di essere spostato nell’altarino fino al 1902. Il luogo corrisponde alla base del campanile, forse scelto per proteggere le Reliquie dagli attacchi degli Ottomani che imperversarono nelle zone frentane nel XVI secolo. Il convento permette l’accesso laterale alla chiesa e al complesso archeologico del monastero di San Legonziano e alla sala del Museo permanente del Miracolo Eucaristico, dove sono conservate alcune tele settecentesche, dei frammenti italici rinvenuti negli scavi del 1994, e preziosi paramenti liturgici e dei pannelli descrittivi che spiegano la storia religiosa del Miracolo e gli studi scientifici del Novecento. Gli scavi effettuati sotto l’area dell’attuale chiesa di San Francesco, hanno consentito di localizzare l’impianto della chiesa originale del Miracolo esattamente nella zona della cisterna romana, con un muro, dove è stato scoperto il lacerto dell’abside dove nell’VIII secolo, secondo la tradizione si verificò il Miracolo, antico impianto del vecchio convento di San Legonziano, accessibile attraverso una moderna scalinata dalla sala del Museo del Miracolo. Il piccolo vano dove si sarebbe verificato il Miracolo è molto semplice, in pietra grezza, ed è stato provvisto di un altare e di panche, insieme a una targa commemorativa.”
“Dopo questa lunga premessa, è arrivato il momento in questo articolo di parlare dello straordinario evento del Miracolo Eucaristico di Lanciano avvenuto circa l’anno settecento. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell’Imperatore Leone III, l’Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia). In concomitanza della “lotta iconoclasta” nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano. Un giorno, mentre un monaco stava celebrando la messa nella chiesa dei santi Legonziano e Domiziano a Lanciano, venne colto dal dubbio circa la reale presenza di Gesù nella Santa Eucaristia, nell’ostia e nel vino. Le fonti dell’epoca non hanno tramandato l’identità del sacerdote, specificando solo che si trattava di un religioso di rito bizantino appartenente all’ordine dei basiliani. Un documento del 1631 descrive il sacerdote in questione come «non ben fermo nella fede, letterato nelle scienze del mondo, ma ignorante in quelle di Dio; andava di giorno in giorno dubitando se nell’ostia consacrata vi fosse il vero Corpo di Cristo e così nel vino vi fosse il vero Sangue». Dopo che ebbe pronunciato le parole della consacrazione, secondo quanto tramandato dalla tradizione l’ostia si trasformò in un pezzo di carne sanguinante, mentre il vino si tramutò in sangue, successivamente coagulatosi in cinque grumi di diverse dimensioni. Il sacerdote diede allora notizia ai fedeli presenti in chiesa di ciò che era accaduto.”
“La sua reazione di fronte alla inattesa mutazione che coinvolse anche le specie sacramentali fu che: “Da tanto e così stupendo miracolo atterrito e confuso, stette gran pezzo come in una divina estasi trasportato; ma, finalmente, cedendo il timore allo spirituale contento, che gli riempiva l’anima, con viso giocondo ancorché di lacrime asperso, voltatosi alle circostanti, così disse: ‘O felici assistenti ai quali il Benedetto Dio per confondere l’incredulità mia ha voluto svelarsi in questo santissimo Sacramento e rendersi visibile agli occhi vostri. Venite, fratelli, e mirate il nostro Dio fatto vicino a noi‘”. E’ il sentimento comune che si accompagna ad ogni esperienza di Dio e del suo misterioso agire con i figli degli uomini. Il pane e il vino, investiti dalla forza creatrice e santificatrice della Parola, si sono mutati improvvisamente, totalmente e visibilmente in Carne e Sangue. Non abbiamo nessun elemento in mano che ci permetta di fissare il giorno, il mese o l’anno preciso in cui l’Evento si è verificato, ma una dolorosa vicenda datata all’anno 725 e che determinò un incremento del flusso migratorio dei monaci greci in Italia, tra cui la piccola comunità approdata a Lanciano possono far ritenere fondatamente e ragionevolmente con buona approssimazione che il Miracolo si sia verificato tra gli anni 730-750 dell’era cristiana.”
“Prescindendo dai positivi risultati della ricerca scientifica, chi desidera conoscere la storia e il culto delle Reliquie del Miracolo Eucaristico, ha disponibili altri dati informativi disseminati nel tempo; tuttavia non dovrebbe sorprendere nessuno la scarsità del materiale documentario su un evento che risale al 700 d.C.. Purtroppo e non solo dalla frequentazione archivistica, ma anche da altre fonti risulta di constatare la scomparsa sconsiderata di documenti e la distruzione incosciente di pergamene avvenuta in Lanciano e altrove. Pertanto, il primo documento scritto risale al 1631 e riferisce nei minimi particolari l’accaduto al monaco. Nei pressi del presbiterio del santuario, sul lato destro della Cappella Valsecca, si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove in sintesi è narrato l’Evento. Possiamo aggiungere in questa sezione anche le diverse Ricognizioni sul Miracolo, verifiche storiche e giuridiche per affermare nei secoli l’autenticità del Miracolo da parte dell’Autorità ecclesiastica. La prima Ricognizione avvenne nel 1574 dall’Arcivescovo Gaspare Rodriguez, il quale constatò che il peso totale dei cinque grumi di sangue equivaleva al peso di ciascuno di essi. Questo fatto straordinario non fu verificato ulteriormente. Il peso attuale complessivo di grumi è di g. 16,505, quello di ciascuno di essi è di g. 8; di g. 2,45; di g. 2,85; di g. 2,05 e di g. 1,15. Bisogna aggiungere mg. 5 di polvere di sangue. Diversi documenti attestano a partire dal secolo XVI, la venerazione resa alle “reliquie” e l’uso che si aveva di portarle in processione in momenti di necessità gravi e urgenti. Altre ricognizioni avvennero nel 1637, 1770, 1866, 1970.”
“Siamo in Abruzzo, in provincia di Chieti, nella città di Lanciano. A due passi dalla centralissima piazza Plebiscito, nel cuore del centro storico era aperta al pubblico una chiesetta dedicata a San Legonziano, affidata dal senato e dal popolo di Lanciano ad un modesto nucleo di monaci basiliani, approdati nel capoluogo frenano come profughi. Il Miracolo Eucaristico si verificò in tale tempio e tra le mani di uno di questi monaci orientali. Recenti ricerche archeologiche confermano abbondantemente la presenza di bizantini in zona all’epoca di cui parliamo. Si sono, infatti, rinvenuti reperti ceramici decorati a bande, tipici dell’età bizantina. L’archeologo Andrea Staffa sostiene: “Esattamente al di sotto dell’attuale altare del Santuario (della chiesa di san Francesco) è stata evidenziata un’aula in muratura di conci quadrangolari di pietra, forse riconducibili all’impianto originario del luogo di culto”. Le Reliquie del Miracolo furono custodite nella chiesetta originaria sino al 1258, passando successivamente dalle mani dei basiliani in quelle dei benedettini (c. 1074) e, dopo la parentesi arcipretale (1229-1252), nelle mani dei francescani. La vicinanza del fiorente monastero di San Giovanni in Venere in quel di Fossacesia, monastero oggi affidato ai Padri Passionisti, in coincidenza con il tramonto della presenza bizantina, favorì l’insediamento dei benedettini nella chiesa di San Legonziano, appunto tra gli anni 1047 e 1076. Successivamente la chiesa del Miracolo fu affidata al clero locale, nella persona dell’arciprete fino alla venuta dei francescani il 3 aprile dell’anno 1252. Nel 1258 i frati francescani ricostruirono la chiesa e la dedicarono a San Francesco. Questi religiosi, a loro volta, dovettero lasciare il luogo nel 1809, quando Napoleone I soppresse gli ordini religiosi. Essi riebbero il loro antico convento solo nel giugno 1953. Le reliquie, chiuse in un reliquiario d’avorio, furono custodite prima nella chiesa di San Legonziano, poi in quella di San Francesco. Al tempo delle incursioni dei turchi negli Abruzzi, un frate minore, chiamato Giovanni Antonio di Mastro Renzo, volle salvarle e, il 1 agosto 1566, partì portandole con sé. Ma dopo aver camminato tutta la notte, si trovò il mattino dopo, ancora alle porte di Lanciano. Capì allora che lui e i suoi compagni dovevano rimanervi per conservare le reliquie. Queste, una volta passato il pericolo, furono poste su un altare degno di esse, sul lato destro dell’unica navata della chiesa conventuale, chiuse in un vaso di cristallo, deposto, questo, in un armadio di legno, chiuso con quattro chiavi. Nel 1920, le reliquie furono poste dietro il nuovo altare maggiore. Dal 1923, la “carne” è esposta nella raggiera di un ostensorio, mentre i grumi di sangue disseccato, sono contenuti in una specie di calice di cristallo ai piedi di questo ostensorio. In novembre 1970, per le istanze dell’arcivescovo di Lanciano, Monsignor Perantoni, e del ministro provinciale dei Conventuali di Abruzzo, e con l’autorizzazione di Roma, i Francescani di Lanciano decisero di sottoporre a un esame scientifico queste “reliquie” che risalivano a quasi 12 secoli. Il compito fu affidato al dott. Edoardo Linoli, capo del servizio all’ospedale d’Arezzo e professore di anatomia, di istologia, di chimica e di microscopia clinica, coadiuvato del prof. Ruggero Bertelli dell’Università di Siena, che effettuò dei prelevamenti sulle sacre reliquie, il 18 novembre 1970, poi eseguì le analisi in laboratorio. Il 4 marzo 1971 e presentò un resoconto dettagliato dei vari studi fatti. Ecco le conclusioni essenziali: 1) La “carne miracolosa” è veramente carne costituita dal tessuto muscolare striato del miocardio. 2) Il “sangue miracoloso” è vero sangue: l’analisi cromatografica lo dimostra con certezza assoluta e indiscutibile. 3) Lo studio immunologico manifesta che la carne e il sangue sono certamente di natura umana e la prova immunoematologica permette di affermare con tutta oggettività e certezza che ambedue appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB, indicando l’appartenenza della carne e del sangue alla medesima persona, con la possibilità tuttavia dell’appartenenza a due individui differenti del medesimo gruppo sanguigno, ma lo stesso della Sacra Sindone e del sacro sudario. 4) Le proteine contenute nel sangue sono normalmente ripartite, nella percentuale identica a quella dello schema siero-proteico del sangue fresco normale. 5) Nessuna sezione istologica ha rivelato traccia di infiltrazioni di sali o di sostanze conservatrici utilizzate nell’antichità allo scopo di mummificazione.
Nel 2006 il professor Silvano Fuso, membro del CICAP, prendendo come esempio la presenza di proteine nelle mummie egizie, affermò che «la conservazione di proteine e di minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale». Tuttavia, lo stesso Fuso proseguì affermando che «il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici». Certo, la conservazione di proteine e dei minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale: le analisi ripetute hanno permesso di trovare proteine nelle mummie egiziane di 4 e di 5.000 anni, ma é opportuno sottolineare che il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti, è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici. Il prof. Linoli scarta anche l’ipotesi di un falso compiuto nei secoli passati: “Infatti, dice, supponendo che si sia prelevato il cuore di un cadavere, io affermo che solamente una mano esperta in dissezione anatomica avrebbe potuto ottenere un “taglio” uniforme di un viscere incavato (come si può ancora intravedere sulla “carne”) e tangenziale alla superficie di questo viscere, come fa pensare il corso prevalentemente longitudinale dei fasci delle fibre muscolari, visibile, in parecchi punti nelle preparazioni istologiche e se il sangue fosse stato prelevato da un cadavere, si sarebbe rapidamente alterato, per deliquescenza o putrefazione.”
Nel 1981 i francescani di Lanciano fecero eseguire una nuova analisi sulla carne. La relazione, stilata al termine degli esami e pubblicata nel 1982 con il titolo Studio anatomo-istologico sul “cuore” del Miracolo Eucaristico di Lanciano (VIII sec.), ribadì i risultati del 1971. La carne appare raggrinzita ma, anche idealmente distendendola, non sarebbe possibile colmare interamente lo spazio vuoto al centro dell’ostia: lo studio ritiene che lo spazio vuoto corrisponda a un ventricolo, probabilmente il sinistro, a giudicare dallo spessore del mantello miocardico. In nessuna sede sono state ritrovate tracce di sostanze conservanti. “Un’epigrafe, realizzata nel 1636, descrive così l’evento: «Circa gli anni del Signore settecento, in questa chiesa, allora sotto il titolo di San Loguntiano de’ monaci di San Basilio, dubitò un monaco sacerdote se nell’hostia consecrata fusse veramente il corpo di Nostro Signore e nel vino il sangue. Celebrò messa, e, dette le parole della consecratione, vidde fatta carne l’hostia e sangue il vino. Fu mostrata ogni cosa a’ circostanti et indi a tutto il popolo. La carne è ancora intiera et il sangue diviso in cinque parti dissuguali che tanto pesano tutte unite, quanto ciascuna separata. Si vede hoggi nello istesso modo in questa cappella, fatta da Gio. Francesco Valsecca a sue proprie spese l’anno del Signore MDCXXXVI.»”
“Le reliquie vennero chiuse in una teca d’argento e avorio, posta in un tabernacolo alla destra dell’altare maggiore. Nel 1566, nel timore che i turchi potessero profanarle, vennero murate in una piccola cappella. Dal 1636 le reliquie furono protette da una grata in ferro battuto chiusa a chiave. Nel 1713 vennero realizzati l’ostensorio e il calice in cristallo di scuola napoletana, all’interno dei quali l’ostia e il sangue sono tuttora conservati. Nel 1902 l’ostensorio fu posto all’interno di una struttura in marmo costruita sopra l’altare maggiore. Alcuni ritengono, senza però indicare fonti verificabili, che del miracolo di Lanciano si sarebbero occupati anche l’ONU e il consiglio superiore dell’OMS i quali, nel 1976, avrebbero pubblicato una relazione favorevole alla miracolosità dell’evento. Tuttavia né gli studi di Odoardo Linoli, pubblicati nel 1982, né la Santa Sede, che si occupò di Lanciano in un lungo articolo su L’Osservatore Romano del 23 aprile 1982, menzionano la presunta relazione dell’ONU e dell’OMS.”
A Lanciano nel 1273, si sarebbe verificato un secondo miracolo eucaristico: secondo quanto tramandato dalla tradizione, una donna, su invito di una fattucchiera a cui si era rivolta, gettò un’ostia consacrata nel fuoco, ma la particola si trasformò in carne, da cui sgorgò abbondante sangue. Parte delle reliquie furono portate a Offida, dove sono ancora visibili nel santuario di Sant’Agostino; per questa ragione l’episodio è tradizionalmente ricordato come “miracolo eucaristico di Offida”. Alcuni frammenti del presunto miracolo sono tuttavia conservati nella piccola Chiesa di Santa Croce, lungo Via dei Frentani a Lanciano, nel Quartiere Lancianovecchia.
La “montagna madre” della Maiella, così considerata, da intere generazioni, per la sua naturale capacità di accogliere un’incredibile varietà di vita e di specie vegetali e animali, ha da sempre offerto all’uomo la possibilità di ritirarsi e rigenerarsi per cercare risposte al suo cammino interiore. Luoghi talmente simili al grembo materno che infondevano la sensazione addirittura di ritornare, almeno per qualche istante, nell’utero dal quale si era stati concepiti e dove, avvolti nel suo buio più profondo, combattere con i propri limiti per riemergere, con maggiore consapevolezza, alla Luce.
L’effetto che si prova entrando nella Grotta del Colle di Rapino dove si trovano ancora i resti, seppur esigui, dell’Eremo della Madonna della Grotta (o di Santa Maria de Cryptis), eretto probabilmente tra l’XI e il XIV secolo dai Monaci Benedettini della vicina Abbazia di San Salvatore a Maiella, di cui anche in questo caso non è rimasto granché, è molto suggestivo.
Resti dell’Eremo della Madonna della Grotta (foto by David Giovannoli)Resti archeologici dell’Eremo dalla Madonna della Grotta (foto by “In Abruzzo” – inabruzzo.it)
Ciò che cattura l’anima del visitatore non è la struttura del romitorio posto a ridosso dell’entrata della grotta, e che si fatica a ritrovare per via dei rovi che la sommergono, ma la cupola naturale che si estende per 45 metri di larghezza e 6 di profondità e che si prepara ad accogliere chi si accinge a visitarla. Essa ha da sempre attratto l’uomo che, fin dalla preistoria, ne è rimasto affascinato per la sua forte somiglianza simbolica all’utero materno e per la ricchezza di concrezioni calcaree da cui stilla continuamente acqua e dove in essa rivedeva l’immagine dell’allattamento, eleggendolo da sempre come luogo di culto per i riti in funzione della “Madre Terra”. Resti e frammenti ossei di quel periodo ne sono testimonianza ma i ritrovamenti più straordinari rinvenuti al suo interno risalgono ad una delle più importanti Popoli Italici che abitavano l’Abruzzo prima dei Romani, i Marrucini, i quali vi avevano istituito uno dei loro principali santuari.
Grotta del Colle (foto by David Giovannoli)Ingresso della Grotta del Colle (foto by Paolo D’Intino)
Tra i manufatti più importanti rinvenuti vi è la statuetta in bronzo del VII-VI sec. a.C. soprannominata “Dea di Rapino“. L’idoletto femminile, alto poco più di 10cm e conservato presso il Museo della Civitella di Chieti, però, non rappresenta, così come si è voluto credere, una divinità ma una sacerdotessa in atto di offrire, probabilmente a scopo propiziatorio, i prodotti del raccolto alla dea Ceria Giovia, nume tutelare della terra e dell’agricoltura tra le più importanti del Pantheon Italico. La donna rappresentata, infatti, oltre ad essere rivestita in abiti da cerimonia, con una lunga tunica e i capelli raccolti in una elaborata acconciatura, nella mano destra porge delle spighe di grano.
Dea di Rapino (foto by “Direzione regionale Musei Abruzzo” – musei.abruzzo.beniculturali.it)
Altra scoperta sensazionale è la Tabula Rapinensis, una lastra in bronzo sulle quali iscrizioni incise in dialetto marrucino si riportano particolari sul culto del santuario. All’interno della grotta, o nei pressi, esisteva un collegio femminile che accoglieva fanciulle con eccelse qualità fisiche, morali o di lignaggio destinate a rituali. Per alcuni anni, sotto la guida della maestra sacerdotale, esse si offrivano, attraverso una prostituzione sacralizzata, per il compimento di riti rievocanti la forza creatrice suprema e la potenza generatrice di Ceria Giovia. Purtroppo, della “Tavola Rapinese”, portata al Museo di Berlino dall’archeologo Theodor Mommsen e scomparsa nel 1945, non si hanno più tracce. Si ritiene possa essere stata trafugata dalle truppe sovietiche che lo hanno portato nel Museo Puškin di Mosca ma ad oggi non vi sono ancora certezze.
Tabula Rapinensis (foto by “Direzione regionale Musei Abruzzo” – musei.abruzzo.beniculturali.it)
La religiosità popolare di Rapino sembra aver conservato al suo interno, attraverso una rifunzionalizzazione accettabile nella fede cristiana, alcuni elementi rituali e simbolici propri del santuario italico. L’8 Maggio di ogni anno, giorno in cui si festeggia la Madonna del Carpineto, almeno fino a qualche anno fa, invocata per propiziare il buon raccolto alla stregua di come ci si rivolgeva alle antiche divinità vegetative, la statua della Madonna viene portata in processione preceduta dalle “Verginelle di Rapino”. Di età compresa dai 6 ai dieci 10 anni, le bambine vengono rivestite di lunghe tuniche alla “greca” di colore bianco, rosa e celeste, coronate da fiori su capelli rigorosamente arricciati e ornate di monili dati in prestito dalla cerchia di familiari. Prestare l’oro, infatti, aveva un ruolo apotropaico e questo metallo prezioso ricorda simbolicamente la divinità a la perfezione di Maria. Alle “Verginelle” è affidato anche il compito, prima dell’inizio della cerimonia, di distribuire pagnotte benedette in cambio di dolci e di un compenso economico alla parrocchia. (Nicolai Maria Concetta, Abruzzo 150 Antiche Feste, Edizioni Menabò, Ortona, 2014, pp. 137-141)
Vestiario delle Verginelle di Rapino (foto by David Giovannoli)La Madonna del Carpino (foto by David Giovannoli)Il carpino dove si afferma sia apparsa la Madonna (foto by David Giovannoli)
Riferimenti bibliografici:
AA.VV., Rapino: guida storico-artistica alla città e alle sue tradizioni, CARSA Edizioni, Pescara 2003, pp. 88-92
Micati Edoardo, Eremi e luoghi di culto rupestri della Majella e del Morrone, CARSA Edizioni, Pescara 1990, pp. 81-85
Nicolai Maria Concetta, Abruzzo 150 Antiche Feste, Edizioni Menabò, Ortona, 2014, pp. 137-141
Tavano Giovanni, Eremi d’Abruzzo: guida ai luoghi di culto rupestri, CARSA Edizioni, Pescara, 2007, pp. 42-43
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 51° Eccellenza, , quella del comune di Pettorano sul Gizio in provincia di L’Aquila, con lo splendido Borgo Medievale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 254, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
“Le origini dell’attuale abitato di Pettorano sul Gizio risalgono all’epoca medievale, ma il territorio circostante e le alture vicine al paese vennero frequentate dall’uomo fin dal paleolitico. Ricerche condotte lungo le pendici del Monte Genzana e in varie zone circostanti hanno fornito testimonianze antichissime, con ritrovamento di utensili appartenuti ai primi cacciatori che frequentavano e sporadicamente abitavano queste lande. Tra i numerosi reperti antichi rinvenuti nel territorio o riutilizzati nel paese sono da citare, oltre ad alcune epigrafi in dialetto peligno, un importantissimo frammento in greco dell’Edictum de pretiis rerum venalium, documento di carattere economico emanato nel 301 d.C. dagli imperatori Diocleziano e Galerio (in oriente) e Massimiano Erculeo e Costanzo (in occidente). Il frammento, l’unico in greco conosciuto in occidente, fu probabilmente portato a Pettorano nel corso del XIX secolo e si conserva in una casa gentilizia privata.
Al di là delle fabulae a sfondo storico rintracciabili in alcune pagine storico locali, spesso eccessivamente campanilisti, le origini del paese attuale sono da ricercare nel periodo medievale, nella fase in cui i pagi e i vici di tradizione tardoantica venivano uniti in un unico complesso urbanistico per motivi difensivi, politici ed economici. Uno storico pettoranese del XIX secolo Nicola Bonitatibus, ha così ben descritto la formazione di Pettorano: “Undeci, ed anche più si vuole che fussero le Ville, le quali, unitesi in società circa il decimo secolo, si determinarono ad eriggere Pettorano nel luogo dove al presente si vede. Lo circuirono di muri, e di torri, e lo munirono d’una fortezza, per far fronte a comuni inimici, ed agli invasori”. Per il Bonitatibus, quindi, le originarie vite, che avrebbero poi dato origine all’attuale abitato, potevano essere individuate nelle superstiti chiesette rurali, eredi degli antichi pagi e da lui recensite su tutto il territorio in numero superiore ad undici.”
Nel corso dell’XI secolo, grazie alle importanti trasformazioni economiche attuatesi tra la fine del X e l’inizio dell’XI, si verificò il fenomeno dell’incastellamento, ovvero della fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello, inteso come concentrazione di uomini ed interessi Nel corso del XVII secolo si assistette ad un vero e proprio arricchimento della tipologia architettonica, con la costruzione o la ristrutturazione dei più imponenti palazzi nobiliari del paese, dal Palazzo Croce al Palazzo Gravina, dalla Castaldina al Palazzo Vitto-Massei. Nel XVI secolo vede la luce il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono notevoli resti, con un allargamento della superficie difesa e protetta dal castrum e la sua struttura urbana ha assunto la forma odierna nel tardo medioevo, quando fu costruita la cinta muraria con le sei porte, cinque delle quali sono ancora visibili, per cui vediamole in rapida successione: Porta San Nicola con l’affresco seicentesco di notevole interesse situato nella parte più alta dell’arco sopra l’arco raffigura Santa Margheritache sorregge il paese con la mano sinistra e con la destra una croce. in cui è raffigurata, tra due colonnine terminanti a fiaccola. L’opera potrebbe essere datata intorno al 1656, come suggerisce una targa recentemente riportata alla luce da lavori di restauro. Abbiamo poi Porta Cencia, Porta San Marco, Porta del Mulino e Porta Santa Margherita. La Port del Mulin, è il più modesto degli accessi al paese ma assai utile in passato e come suggerisce il nome, perché attraverso questo passaggio oggi si accede al parco di archeologia industriale, nel passatosi accedeva ai mulini sul fiume Gizio, fatti costruire dai Cantelmo ed attualmente la zona, assai suggestiva dal punto di vista naturalistico, conserva ancora i resti di queste antiche costruzioni (alcune risalenti al XVI secolo), e della ramiera ducale officina per la lavorazione del metallo. La Porta Cencio detta anche Reale o delle Manare deve queste diverse denominazioni a varie situazioni; il toponimo Cencia designava la piazzola antistante a forma circolare, come una cintura (dal latino cingula, cintura) realizzata su un dirupo. L’antica denominazione delle Manere o Manare si potrebbe collegare con la quasi omonima Porta Manaresca di Sulmona e spiegabile con l’espressione latina “mane arescit” ad indicare l’aridità del suolo per la lunga esposizione al sole (le porte sono esposte entrambe ad oriente) oppure derivante dal nome Manerio, conte di Valva e Signore di Pacentro. Solo dopo il 1832, quando il re Ferdinando IIdi Borbone entrò nel paese attraverso questa porta, assunse il nome di Porta Reale. La Porta San Marco o delle Macchie era ed è tuttora l’accesso più vicino al castello. La statua che sovrasta l’arco rappresenta Sant’Antonio, posto tra due pinnacoli. Nelle vicinanze doveva trovarsi una chiesa dedicata a San Marco, ricordata in alcuni documenti, che dette il nome alla zona e alla porta. La denominazione secondaria si deve invece al fatto che da questa porta parte una strada, un tempo denominata via delle Macchie, che conduce alla Chiesa di San Rocco. Infine Porta S. Margherita o delle Frascare, con l’etimologia popolare che riconduce il nome secondario della porta al fatto che vi passassero i taglialegna per andare in montagna a fare le frasche.
“Da sottolineare che il centro storico di Pettorano ricade tutto all’interno dell’area protetta del “Monte Genzana Alto Gizio”, caso unico tra le riserve naturali regionali, per cui precisi vincoli tutelano così le bellezze della natura insieme a quelle edificate dall’uomo, con la Riserva che è un corridoio ecologico tra i due Parchi Nazionali d’Abruzzo e della Majella e racchiude numerosi ambienti naturali e specie animali e con un panorama tra i più belli d’Abruzzo che da vita a luoghi che avevano già affascinato Ovidio negli Amores.
Il borgo, come a testimoniare il ricordo di antiche usanze, espressioni di cultura ma anche di modelli organizzativi di vita sociale basata su regole di sapiente gestione del patrimonio culturale e naturale, è ancora ricco di feste e tradizioni come pochi altri paesi d’Italia, infatti restano vivi i costumi delle donne, il re Carnevale, i ceri sui davanzali delle finestre nei giorni dei Morti, i rituali primaverili di ispirazione pagana, i culti agrari, la pietra di cui è fatto il borgo, l’aria frizzante di montagna, l’acqua del fiume Gizio che da sempre scorre accanto.”
“A Pettorano eletto da Abruzzomania a eccellenza di borgo medievale, si respira ancora un forte senso di Medioevo che viene ingentilito dai portali e dagli arzigogoli barocchi sparsi qua e là. Il vuoto nel tessuto urbano lasciato dall’emigrazione viene sovrastato dalla bellezza delle antiche stradine o “rue” che scendono verso le mura snodandosi tra scalette, cortili, antichi edifici arricchiti da iscrizioni e stemmi incisi dal tempo. In ogni momento si può rimanere sorpresi e affascinati dagli scorci naturali che si creano verso la montagna che avvolge da sempre il borgo. All’interno delle mura molti sono gli edifici di pregio, per la maggior parte frutto di demolizioni e ricostruzioni, in epoca tardo-rinascimentale e barocca, di edifici antecedenti al XV secolo.” A Pettorano sul Gizio si è circondati da veri tesori architettonici che siamo soliti nelle famose città d’arte, diversi e pregevoli che testimoniano il suo antico periodo d’oro. In questo borgo d’arte dotato di una straordinaria eleganza architettonica si trovano palazzi signorili, castelli e torrioni, portali antichi, possenti archi, fontane monumentali, bifore fiorite, battenti e balconi in pietra lavorata.”
“Come il ristrutturato e imponente Castello dei Cantelmo, vera eccellenza del borgo che pur mancando fonti certe, dovrebbe essere stato costruito attorno al XI secolo, come evoluzione dell’ancora esistente torrione centrale di avvistamento, che faceva parte di un sistema di difesa composto dai castelli, oggi trasformato in una moderna struttura espositiva. Il palazzo Ducale, altro regno dei Cantelmo e loro residenza privata, detto La Castaldina e anche “Castellina“, sede degli amministratori Castaldi che facevano le veci dei Cantelmo con la facciata, del 1794, di gusto barocco.in cui nella corte interna (attuale piazza Zannelli) si ammira la bella fontana in pietra, decorata con motivi vegetali, fatta costruire da Fabrizio II Cantelmo nella prima metà del XVII secolo, come si legge nell’iscrizione ancora ben visibile sulla base. La facciata principale è visibile uno stemma inciso nella pietra e dipinta un’antica meridiana, arricchita da una cornice raffigurante i segni zodiacali ed altri elementi celesti.
Altre bellezze architettoniche sono la Fontana monumentale di Piazza Umberto del 1897, sul fianco della chiesa madre, con una vasca in pietra con sopra una più piccola vasca in bronzo a forma di conchiglia che riceve l’acqua da due mascheroni. Su di essa vi sono due splendide statue in bronzo raffiguranti Nettuno ed Anfitrite. Più in alto ancora vi è lo stemma di Pettorano con un’armatura romana “pectoralis” da cui forse deriverebbe il nome del paese. A Pettorano è possibile ammirare anche altri meravigliosi Palazzi, come il palazzo De Stephanis, la cui facciata è un trionfo di gusto rococò, il palazzo Croce, che conserva al suo interno l’unico frammento rinvenuto in Occidente dell’Editto di Diocleziano (301 d.C.), il palazzo Giuliani, altro imponente edificio del XVIII sec., e palazzo Vitto-Massei.
“Pettorano sul Gizio è non solo questo, come non ricordare anche le sue squisite eccellenze culinarie che annoverano la polenta rognosa cotta rigorosamente nel paiolo di rame con acqua del Gizio, farina di mais “otto file”, spuntature di maiale, olio evo, pecorino abruzzese. e tagliata a fette con un filo. Tipici anche i mugnoli e chezzerieje, gnocchetti lavorati con acqua e farina e conditi con la gustosa verdura degli ortolani–pastori. Le Crostele, speciali “Ciambelle fritte” a base di patate, le Pizzelle Dolci, i ceci ripieni, una sfoglia con ripieno di ceci, cacao, mosto cotto, zucchero, uvetta o canditi e la pizza di San Martino con noci, cioccolato fondente, cannella, mosto cotto e chiodi di garofano, tutto da leccarsi i baffi.”
Chiudiamo con una panoramica sul patrimonio religioso che annovera una quantità di edifici religiosi molto ampia rispetto alla grandezza del paese, ognuno con delle sue specificità come si potrà leggere. Il terremoto del 1706 obbligò a nuove ricostruzioni, come quella della Chiesa Madre, intitolata così dal 1589 in onore di San Dionisio, ma dal 1594 il titolo passa ad una non ben identificata S. Maria della Porta. La zona della Chiesa Madre veniva denominata “Prece“, da un’etimologia popolare dal latino “preces”, preghiere o si può ricondurre il toponimo alla parola latina “praeceps, – ipitis“, che significa precipizio, pendio, data la sua posizione a cavallo di due vallate. Sullo stesso lato della Chiesa Madre venne costruita nel 1897 una fontana ornamentale con due statue in bronzo raffiguranti le divinità Nettuno ed Anfitrite e teste zoomorfe da cui sgorga l’acqua.
Tra gli edifici religiosi, meritano una visita la piccola chiesa extramuraria di San Nicola, già esistente nel 1112, e la chiesa della Madonna della Libera, da cui si dipartono le caratteristiche stradine in discesa (“rue”) che conducono alla vallata del fiume Gizio attraverso interessanti stratificazioni architettoniche, mentre le altre chiese di San Rocco, San Giovanni e San Antonio conservano poco della struttura originaria. La Parrocchia della Beata Vergine Maria e di San Dionisio che risale al XV secolo voluta dalla famiglia Cantelmo e ricostruita sopra una precedente chiesa de XIII secolo, troppo piccola per gli abitanti, ma divenne la parrocchiale molto tardi, poiché nel 1594 aveva tale titolo la chiesa di Santa Maria della Porta.
La Chiesa di San Rocco fu costruita in seguito alla peste che falcidiò la popolazione nel 1656 in onore di San Rocco, protettore degli appestati, onorato in quasi tutti i paesi che conobbero la terribile malattia con la costruzione di una chiesa a lui dedicata. L’iscrizione sulla facciata della chiesa, un edificio dalle forme assai semplici databile alla fine del XVII secolo, esprime il terrore degli abitanti per il terribile male che li aveva colpiti e l’invocazione al Santo perché li liberi. Il piccolo santuario della Chiesa della Madonna della Libera, fatto costruire nel 1680 e che conserva all’interno un altare in marmo sormontato da un dipinto raffigurante la Madonna della Libera, culto, particolarmente sentito dai cittadini della vicina Pratola Peligna, che richiamava in quel luogo ogni anno molti pellegrini pettoranesi, per i quali si pensò di farla costruire.
La Chiesa di San Nicola è invece una delle più antiche chiese pettoranesi, tipica chiesetta rurale, con interno molto semplice. Una prima attestazione si trova in un documento pontificio di Pasquale II del 1112, confermata dai successivi documenti papali del XII secolo. Secondo la tradizione locale sarebbe stata costruita sulle fondamenta di un tempio pagano, del quale però non esistono prove certe.
La Chiesa di San Giovanni che gode dell’antica attestazione presente nel documento di Lucio III del 1183 e in uno successivo di Clemente III del 1188. L’edificio attuale, semplice e modesto nelle proporzioni, non conserva nulla di quello originario che nei documenti del XVIII secolo risulta adibito a magazzino. Chiudiamo questa carrellata sulle 7 chiese del borgo con la Chiesa di Sant’Antonio, che secondo lo storico locale Pietro De Stephanis doveva essere inizialmente dedicata a S. Maria della Vittoria. Annesso all’edificio sacro era un ospedale per il ricovero dei poveri e dei pellegrini, chiamato xenodochio, che nel 1719 fu dichiarato luogo profano e quindi chiuso dal vescovo Francesco Onofrio, come ricorda un’iscrizione ancora visibile sulla porta dell’originaria sacrestia.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 50° Eccellenza, , quella del comune di Crognaleto in provincia di Teramo, con la Chiesa Santuario di Santa Maria della Tibia e la Valle delle Cento Cascate. Per festeggiare il raggiungimento della 50° Eccellenza, andiamo in deroga al nostro regolamento e invece di indicare una sola eccellenza per questo piccolo comune, ne segnaliamo ben due. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 255, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
“C’è una piccola e graziosa chiesetta rupestre, in bella posizione isolata a 1187 di quota e collocata all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso Monti della Laga che sorge su di una rupe e che si raggiunge con breve e ripida salita dall’abitato di Crognaleto, è il Santuario diocesano dellachiesa di Santa Maria della Tibia o Madonna della Tibia. La singolare e apparentemente macabra denominazione del santuario è attribuita dalla tradizione popolare per una grazia ricevuta quattro secoli fa, nel 1617 e nasce quindi come ex voto di un ricco commerciante proveniente da Amatrice, che, trovandosi a passare da quelle parti, cadde in un burrone, invocò la Vergine e avendo riportato solo la frattura di una tibia e quindi salva la vita, fece erigere il tempio, ma anche più prosaicamente deriverebbe dalla fatica necessaria per raggiungere il luogo.”
“La chiesa possiede una copertura a capanna e una facciata a coronamento orizzontale da cui si erge un campaniletto a vela con due fornici che accolgono altrettante campane di diversa grandezza. La più grande reca l’invocazione “Liberaci o Signore dal fulmine e dalla tempesta” e fu proprio un fulmine che nel 2005 distrusse il campanile che venne sistemato pochi mesi dopo dall’Ente Parco. Al di sopra dell’architrave c’è una finestra rotonda incorniciata in pietra, sopra la quale compare in un cartiglio su travertino l’anno di erezione della chiesa e la scritta in latino: “Inginocchiati e venera la Madonna, o viaggiatore, affinché guidi i tuoi passi fuori dai pericoli“.”
“Sulla sinistra si trova una piccola struttura adibita a ristoro dei pellegrini ed oggi riportata all’uso originario. L’interno è ad unica navata e nella zona presbiterale si trova l’altare ligneo d’orato di fattura barocca con al centro la statua in legno della Madonna della Tibia, a cui vengono attribuiti poteri di protezione dalle calamità, guarigioni miracolose e poteri di protezione dalle calamità. Dal 1619, per concessione del Vescovo aprutino Giovanni Battista Visconti, confermata nel 2006 con Decreto della Penitenziaria Apostolica, viene accordata un’indulgenza di cento giorni all’anno per ogni visita alla chiesa nel giorno del 9 agosto. La devozione per la Madonna della Tibia, inoltre, rientra nel culto popolare mariano delle “Sette Madonne Sorelle“, molto diffuso nelle zone rurali. Il luogo è silenzioso e suggestivo, il panorama magnifico e riposante. La chiesa risulta sia stata edificata nel 1617, ma le sue fattezze fanno pensare a origini più antiche, infatti fonti storiche riportano che già nel XII secolo in quel luogo vi fosse una chiesetta conosciuta con il nome di “Tibbla” da cui potrebbe dunque derivare la curiosa denominazione tramandata fino a oggi.”
“Prima di descrivere la seconda eccellenza di Crognaleto, è bene da sapere che il piccolo paesino, di poco più di mille anime, è suddiviso in quattro borghi + uno (la borgata centrale). La parte più antica, ai piedi del paese, si chiama borgo “Combrello” (Colle Morello) in cui si ammirano le case costruite in arenaria, che rispecchiano la geologia del luogo, il paesaggio è mozzafiato e qui vi era un antico monastero di Gesuiti con la presenza del divino ancora tangibile testimoniato in quasi tutti gli architravi del 1600 delle case, con epigrafi in latino di monito di lode e motti, contenenti il monogramma gesuita con le lettere IHS e il più significativo, datato 1755, è posto sull’architrave di una porta in piazzetta “DESCENDANT IN INFERNUM VIVENTES, NE DESCENDANT MORIENTES” che significa “se si considerasse di più l’esistenza dell’inferno da vivi, non ci si andrebbe da morti”.
Nella parte più alta del paese c’è il borgo “Colle” che si caratterizza per i versetti e i motti incisi su porte e finestre degli edifici e che conserva tante case in pietra. Qui vi sono le sorgenti: l’acqua “d’ lu pirdir”, “d’ li finticel”, oltre all’acqua “d’ la lagnett” che proprio per questa sue caratteristiche organolettiche è tra le migliori cinque acque in Italia, ottima soprattutto per il latte dei neonati. Il terzo è il borgo Mastresco dove sono stati trovati resti di insediamenti longobardi, come dimostrano proprio i balconi a forma del gafio longobardo e da racconti popolari si narra che il paese fu colpito da uno smottamento, scivolando verso il basso, solo il “Mastresco” rimase al suo posto, da ciò deriva il suo nome “rimasto ecco”. La Villa è la borgata centrale con la grande piazza con la sua fontana, dove si trova la meravigliosa Chiesa di SS Pietro e Paolo che risale al XVII secolo, l’unica nella montagna teramana che conservò il patronato laico, ovvero il diritto dei residenti ad eleggere il proprio parroco.”
“Infine c’è il borgo di Cesacastina, il paese di terra, acqua e legno, con il suo nome che deriva dai termini “cesa: taglio” e “castina: castagni”.
adagiata ai piedi del Monte Gorzano che con i suoi 2.458 m. (la vetta più alta del massiccio dei monti della Laga), è circondata dal verde lussureggiante dei boschi, con la sua inconfondibile forma di croce che ad ogni estremità le corrisponde una borgata: Colle, Villa Mastresco e Combrello. Nel comprensorio di Cescacastina c’è un’altra perla di rara bellezza dello straordinario paesino di Crognaleto, un luogo incantevole divenuto famoso proprio per la sua posizione strategica, poiché in poco tempo è possibile raggiungere la Valle delle Cento Cascate, chiamata anche “Valle delle Cento Fonti”, e questa località delle Cento Fonti forma un vero e proprio “anfiteatro”, di cui fanno parte anche le località “Pretaro” e “Le Iaccere”, e che scende fino a Cesacastina. Una vera e propria “Fabbrica dell’Acqua”, un angolo naturale particolarmente spettacolare e suggestivo del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, che prende il nome dalle decine di cascate e cascatelle (circa 100) con cui il torrente Fosso dell’Acero, che ispira questo toponimo, ricchissimo di acque, tra fine primavera e inizio estate, da vita a un vero e proprio grandissimo bacino idrografico che in primavera è solcato da numerosi corsi d’acqua. soprattutto nel periodo tardo-primaverile, e nella sua vorticosa discesa esplode in cascate e forma piccoli laghi anche ravvicinati tra loro, snodandosi in un percorso rocambolesco tra rigogliosi boschi di faggi secolari, alimentando ricchi pascoli lussureggianti e modellando a proprio piacimento i giganteschi costoni d’arenaria che riempiono la zona, tutto sotto l’austero sguardo delle vette del Corno Grande (che con i suoi 2.912 m. è la cima più alta degli Appennini) e del Pizzo di Intermesoli (2.635 m.). Questo meraviglio luogo lungo il percorso del torrente, che porta ai 1.759 m. dell’Anfiteatro delle Cento Fonti (ed anche più in alto per escursionisti più esperti), si decora di stupendi fiori selvatici d’altura, tra cui diverse specie di orchidee ed in questa area, molto frequentata dai lupi, non è rara la presenza del Cervo, delle Volpi e della famosa Aquila reale che proprio in questi posti nidifica da anni.”
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“Questo angolo particolarmente spettacolare e suggestivo è senza dubbio uno dei più belli e scenografici di tutto il massiccio dei Monti della Laga, che offre panorami mozzafiato ed un ambiente naturale unico. In questo caso, perché non è nostra abitudine, facciamo uno strappo alla regola e diamo alcune informazioni per gli interessati ad andare a visitare questo meraviglioso luogo naturale con partenza proprio da Cesacastina. Per raggiungerlo è necessario seguire rigorosamente il sentiero senza allontanarsene, attraversando il corso del Fosso dell’Acero e dei ruscelli suoi affluenti solamente nei guadi segnalati, senza mettere piede per alcun motivo sui lastroni di pietra a lato del corso d’acqua. La sua frequentazione richiede una attenzione particolare in quanto gli spettacolari scivoli di arenaria percorsi dal torrente e dai suoi affluenti ai lati del sentiero sono molto pericolosi, in quanto resi estremamente scivolosi dall’acqua, anche quando la ridotta portata estivane riduce il flusso ad un velo sottile. Il tempo di percorrenza è di circa 2.15 ore, il dislivello è di 620 m, è presente un segnavia parzialmente segnato (bianco-rosso) ed il periodo consigliato per l’escursione va da maggio a ottobre e si svolge su un percorso che non presenta difficoltà tecniche né pericoli purché si resti sempre nel sentiero facile e molto evidente.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 49° Eccellenza, , quella del comune di Pescocostanzo in provincia di L’Aquila, il borgo storico più bello d’Abruzzo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 256, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Nella regione degli Altipiani Maggiori d’Abruzzo, tra immensi e silenziosi pascoli, a 1.400 d’altezza si trova il magnifico borgo di Pescocostanzo. Centro di antica origine e luogo di intensa civiltà, vanta una favorevole attività culturale, testimoniata dall’eccezionale patrimonio di monumenti rinascimentali e barocchi che hanno avuto origine dalla straordinaria vicenda artistica che sviluppò soprattutto tra il 1440 e 1700.
Il borgo è compreso nel Parco Nazionale della Maiella, la montagna dai grandi canyon, pareti di roccia e fitti boschi nei valloni e tra Pescocostanzo e Cansano si estende, tra i 1290 e i 1420 m di quota, il Bosco di S. Antonio, una delle più belle faggete d’Abruzzo. Protetto come Riserva Naturale dal 1985, il bosco, oltre ai faggi, custodisce nei suoi 550 ettari numerose piante secolari, aceri, peri selvatici, tassi, cerri e ciliegi. All’inizio dell’estate vi fioriscono la genziana, la peonia e una delle orchidee selvatiche più rare d’Italia, la pipactis purpurea. In inverno, è possibile praticare lo sci di fondo tra i faggi e nel pianoro sottostante, mentre l’estate si presta per passeggiate e picnic, habitat di rari uccelli, quali il picchio, il pettirosso, il fringuello e, tra i rapaci, lo sparviero e la poiana.
Pescocostanzo, non è solo natura, infatti la tradizione artigiana è riuscita a rimanere viva e a salvare il patrimonio di esperienza, capacità tecnica, stile e qualità. La lavorazione del merletto a tombolo, quella della filigrana e del ferro battuto, rappresentano un punto di forza della sua tradizione. Pescocostanzo interpreta egregiamente l’antico ruolo di meta di turismo, arte e cultura, di soggiorno estivo ed invernale in uno straordinario ambiente naturalistico, offrendo una vacanza, estiva ed invernale, integrata in un comprensorio che rappresenta con le infrastrutture e le ricettività delle vicine cugine Rivisondoli e Roccaraso, l’offerta montana più completa della montagna abruzzese.
Le prime notizie riguardanti il borgo derivano da un documento del 1108, in cui si legge della cessione di Pescocostanzo da parte del monastero di San Pietro Avellana, dipendenza di Montecassino, a un signore laico, Oddone, membro del ramo dei conti di Valva e residente a Pettorano, il quale lasciò però ai monaci la Chiesa di S. Maria del Colle. Ai conti di Pettorano succedettero, a partire dalla seconda metà del ‘200, i nuovi feudatari legati ai sovrani angioini e dal 1325 al 1464 signori di Pescocostanzo furono i Cantelmo, ed è in questo periodo (tra il 1300 e 1440) che la storia del borgo cambia grazie all’influenza derivata dall’insediamento di un nucleo di artigiani lombardi dediti ad attività edili.
L’afflusso di questi maestri lombardi, richiamati da una forte committenza della borghesia locale, dall’ubicazione del paese, vicino alla “via degli Abruzzi“”, luogo di transito per scambi commerciali e culturali, attraverso la dorsale appenninica, fra il Nord e il sud d’Italia, e passante per l’altopiano delle Cinquemiglia e dalla disponibilità di cave di pietra, costituì una presenza incisiva, le cui testimonianze sono ravvisabili nel gergo dei muratori, nell’ onomastica di alcuni cittadini, nel rito del battesimo per immersione (tipicamente ambrosiano), nella presenza di un secondo protettore del paese, di parte lombarda, S. Felice e, per il tramite di donne lombarde, nella lavorazione del merletto a tombolo, anche se, nonostante l’ausilio di informazioni ricavabili da sculture, pitture e vasi antichi, che confermano l’impiego di attrezzi di lavoro non dissimili da quelli in uso ancora oggi, e le testimonianze di storici e poeti dell’epoca, è difficile risalire alla fase di passaggio dalla lavorazione con l’ago a quella con i fuselli (“tammarieje“), verosimili eredi di ibridi evolutisi nel tempo. Da una prima testimonianza storica sulla predilezione per i merletti da parte di Caterina dei Medici, nel 1547, si passa alla leggenda tramandata dallo studioso francese Lefebure, il quale attribuisce a Venezia la primogenitura di un intreccio di fili che sarebbe stato eseguito con l’ausilio di piombini pendenti da una rete di pescatori, carica, oltre che di pesci, di un’alga con meravigliose ramificazioni pietrificate: l’antenato della trina a tombolo. I pochi scritti sull’argomento lasciano immaginare che la tecnica del fusello sia nata prima del Rinascimento e abbia raggiunto valori di vertice a Venezia, in anticipo rispetto alle altre zone che l’hanno adottata. Notizie sul merletto a tombolo si hanno anche da un documento della famiglia d’Este di Ferrara, nel 1476, e dal riferimento a una “striscia a dodici fusi” per lenzuolo, in un contratto stipulato a Milano.
Si può supporre che, data l’intraprendenza delle classi locali evolute, l’artigianato del tombolo abbia tratto giovamento a Pescocostanzo dai contatti con i principali centri di diffusione dell’epoca come Milano, per il determinante apporto delle maestranze lombarde, a partire dal secolo XV (come sostiene il famoso storico pescolano dr. Gaetano Sabatini) e Venezia, oltre che per i continui contatti con l’Aquila e l’influenza esercitata lungo le coste abruzzesi, ma forse anche per il rapporto di amicizia tra Caterina dei Medici e Vittoria Colonna. il cui contributo all’emancipazione pescolana potrebbe avere scavalcato la funzione politica in più di un caso. Lucilla Less Arciello, altra pescolana d’elezione, sostiene questa seconda ipotesi in un suo pregevole lavoro intitolato “Cristalli di neve in una trina”. Poi c’è anche Genova, che alcuni studiosi citano come patria del tombolo. Qualunque sia l’ipotesi più attendibile sulle origini del tombolo, resta il fatto che la scuola pescolana diventa un fenomeno specifico, un’industria e un patrimonio per l’intera collettività locale, in cui la famiglia si trasforma in laboratorio artigiano: ogni bambina, appena possibile, viene iniziata al tombolo mediante l’esecuzione graduale della “sceda“(scheda), che fissa le nozioni basilari di questa arte; ogni giovanetta in età da marito possiede un corredo principesco di tovaglie. tovaglioli, fazzoletti, lenzuola, centri, pizzi, merletti, che assumono nomi dialettali diversi a seconda del punto o della complessità della figura in cui la fantasia ha sempre la sua parte.
Tenendo anche presente che il merletto a tombolo coinvolge altri artigiani, come il sarto per la preparazione del “cuscino” (il tombolo) e per l’imbottitura con erba falasca; il falegname per la realizzazione dei fuselli (“tammarieje“) in legno di noce, pero o ulivo stagionato, e dell’apposito cavalletto di supporto del tombolo; il disegnatore per l’elaborazione dei modelli, che richiedono una profonda conoscenza delle tecniche di lavorazione. Chiese e cappelle private, che le ricevono in dono e palazzi patrizi e case sono arredati con “pezzi” di valore. Durante l’ultima guerra, i tedeschi, che ne fecero bottino, manifestarono apertamente la loro meraviglia per le ricchezze e la varietà di quel patrimonio, nel quale figuravano, oltre a merletti in seta, esecuzioni con fili d’oro e d’argento. I merletti di Pescocostanzo, la cui compattezza di tessitura non ha uguali in un vasto circondario (Marche incluse) e i cui disegni sono a volte autentiche rarità o esclusiva di qualche trinaia o famiglia, fanno oggi splendida figura nelle esposizioni di industrie tessili italiane ed estere. Buona parte del merito va assegnato alla specializzazione e all’inventiva dei disegnatori locali. L’odierno merletto a macchina, per quanto ineccepibile nella esecuzione, non potrà mai competere con la morbidezza e il calore della lavorazione a mano se non per motivi di costo di produzione, così che, non trattandosi di lavoro su base industriale ogni pezzo è da considerare un “unicum”. Da qualche anno sono visitabili la Scuola del Merletto a Tombolo e il relativo museo realizzati dal Comune nel , in piazza Municipio.
Oltre al tombolo Pescocostanzo vanta anche l’arte del ferro battuto che ha origini molto antiche e una tradizione particolare. Esistente qui fin dal Medioevo, questa arte ricevette un decisivo apporto anch’essa dall’arrivo delle “compagnie” dei Mastri lombardi: “scalpellini, intagliatori, fabbri”, che affluirono in Abruzzo a partire dalla metà del’400 e si insediarono numerosi a Pescocostanzo, facendone il centro di artigianato artistico di più alto livello nella regione. Il vertice dell’arte del ferro battuto si raggiunse a Pescocostanzo alla fine del “600”, quando il fabbro pescolano Sante Di Rocco (1663-1705) realizzò, tra il 1699 e il 1705, il grandioso cancello che chiude l’accesso alla Cappella del Sacramento nella Basilica di Santa Maria del Colle: una delle opere più originali di questo genere che esista in Italia. Altri lavori in ferro di grande maestria sono presenti nella stessa chiesa (l’altare maggiore in ferro, opera del maestro Nicodemo Donatelli) e in arredi delle facciate degli edifici del centro abitato: testimonianza di quanto tale arte fu apprezzata nella comunità cittadina, in cui alcune famiglie l’hanno tramandata di padre in figlio fino ad oggi. Alla Bottega Donatelli va conferito il merito di aver fatto tesoro di questa eredità culturale e di averla custodita intatta e viva nel tempo.
Un’altra delle peculiarità di questo incredibile borgo è l’Artigianato orafo della filigrana (o filograna), un genere di lavorazione dell’oro e dell’argento basata sull’intreccio e sulla saldatura, nei punti di collegamento, di sottili fili di metallo ritorto, o lamine, sagomati o spiralizzati per la formazione di arabeschi e disegni in genere disposti simmetricamente. La sua evoluzione artigianale risale presumibilmente all’artigianato greco. Partendo dal 2000/2500 a.C., la filigrana trova una definitiva tecnica di lavorazione presso gli Etruschi, in modo particolare con decorazioni di lamine in forma di fiori o profili geometrici inseriti simmetricamente, spirali ecc, specie nell’oreficeria religiosa, greca ed etrusca in un primo tempo, romana, barbara e musulmana successivamente. Per quanto riguarda Pescocostanzo, vi sono da segnalare interessanti monili in argento con motivi filigranati, rinvenuti durante gli scavi archeologici in località Colle Riina, dopo l’apertura delle tre tombe longobarde rimaste intatte, i quali potrebbero offrire spunto a nuove ipotesi sull’importazione locale del tipo di lavorazione. Dopo una decadenza (o fase poco documentata) di circa due secoli, la filigrana ha recuperato popolarità verso il XVI – XVII secolo a Genova e a Venezia (e forse Milano), per esplodere in realizzazioni folcloristiche verso il XIX secolo presso le popolazioni dell’Europa centrale e in Spagna. Dall’Italia settentrionale essa è stata sicuramente esportata nel meridione, passando probabilmente orafo per Napoli o Sulmona prima di arrivare a Pescostanzo. Il primo riferimento all’attività orafa da parte del catasto generale del comune di Pescocostanzo risale all’anno 1748 e coincide col superamento di una fase critica dell’economia locale. Di orafi in epoche precedenti ogni notizia è vaga.
Caratteristica della filigrana tradizionale sono la lavorazione e la saldatura a mano, le quali, come si verifica per il tombolo eseguito con cuscino e fuselli anzichè a macchina, conferiscono al prodotto una morbidezza e un respiro inimitabili; tuttavia, non essendo facile distinguere a prima vista la fattura industriale (fusione) da quella artigiana (saldatura a mano) è opportuno informarsi sulla tecnica di lavorazione di un oggetto prima dell’acquisto. Rientrano nella tradizione anche figure o simboli ottenuti con placchette sagomate in oro assiemati per mezzo di spiraline o altri motivi filigranati. Un esempio tipico è la “presentosa“, spilla filigranata in oro, in fase di rilancio da parte dell’oreficeria locale nelle varie versioni fin qui elaborate. Nella tradizione rientrano ancora: “la cannatora“, collana girocollo consistente in un’infilata di “vacura” in lamina stampata a sbalzo (semplice oppure arricchita con grani in oro detti “prescine“), di cui esiste anche una versione moderna; le “cecquaje“, in genere orecchini e spille (di origine turca), lavorati a traforo (impreziositi a volte con pietre, cammei, corallo ecc.), riproducenti oggetti, figure o amuleti di ispirazione apotropaica; altre varie lavorazioni (ricorrendo anche alla cera persa), tra le quali gli “attacci” per sorreggere il filo di lana di pecora utilizzato per ricavare calze e maglie.
L’uso dell’oro nella lavorazione di monili destinati all’ abbigliamento e alla commemorazione è legato all’importanza che esso assume sin dall’antichità nel culto del suo potere magico o divino e della sua durevolezza. Nessuna meraviglia che il suo culto abbia trasmigrato da aztechi, cinesi, egizi e greci alla nostra penisola e, progressivamente, alle sperdute lande degli Altopiani, quasi sicuramente per il tramite dei maestri lombardi e che un centro evoluto come Pescocostanzo ne abbia fatto tesoro raggiungendo nel campo livelli di tutto riguardo. Vi sono nomi di orafi famosi nel passato, forse insuperabili, a cominciare dai Del Monaco, Falconio, Del Sole, Pitassi, ecc., a valle dei quali gli unici superstiti sono, verso gli inizi del XX secolo, le famiglie Domenicano e Tollis, depositarie di un patrimonio secolare di conoscenze.
Concludiamo questo straordinario excursus con le fiabe, la favolistica e le credenze popolari che costituiscono un’altra notevole componente del patrimonio culturale di Pescocostanzo. Da alcune fiabe e superstizioni raccolte in loco e riportate da Gennaro Finamore nel suo volume “Novelle popolari abruzzesi”, si ha conferma della chiara radice pescolana della loro elaborazione, poiché il tessuto narrativo, è talmente puntuale nei riferimenti al comprensorio comunale da eliminare ogni dubbio in proposito. Qualche perplessità potrebbe nascere per la Madonna delle Grazie, nominata nella prima fiaba, la quale sembra non avere alcunché in comune con la stessa, ubicata attualmente al Colle di S. Maria, come anche per il “Ponte di Pietra”, un rudere in quel di Pizzo di Coda, ancora transitabile prima della distruttiva bonifica del bacino del torrente “La Vera”, e per il “Colle delle Sante Celle”, toponimo non riportato sulle carte dell’IGM ma ancora oggi adottato come riferimento inconfondibile al distrutto “Monastero”, il quale sorgeva grosso modo in prossimità delle attuali masserie Macino. Per il resto, comunque, fatto piuttosto insolito nella favolistica, i richiami all’ambiente cui si riferisce ogni storia, sono a portata delle esperienze e conoscenze locali, senza però l’uso di re, regine, principi, principesse ed altri ingredienti di routine, fatta eccezione per qualche fuggevole drago o strega. I testi, di cui molti anziani di “Pesco” serbano memoria, sono ripresi fedelmente dal volume del Finamore sopra citato.
“Il monumento religioso più rappresentativo di Pescocostanzo è la Basilica di Santa Maria del Colle, ricostruita nel 1456 dopo un terremoto. L’ampia aula quadrata dalla caratteristica spaziale unica in Abruzzo, è a cinque navate. L’ingresso laterale, che risale al 1580, con imponente scalinata e portale tardo romanico con lunetta affrescata, è oggi quello principale. Di notevole interesse gli splendidi soffitti lignei, quello dell’ottavo decennio del XVII secolo di Carlo Sabatini e i due intermedi del 1742 dorati e intagliati, che incorniciano tele di pregio, l’altare maggiore e la cancellata in ferro battuto sono una sintesi dell’operato delle maestranze abruzzesi nell’oreficeria del barocco, il Cappellone del Sacramento, opera di Santo di Rocco e Norberto Cicco, del 1699-1705, opere d’arte come la statua lignea medievale della Madonna del Colle, gli stucchi di Giambattista Gianni e la pala d’altare di Santa Caterina di Tanzio da Varallo, che mostra la Madonna dell’incendio sedato (1614). Accanto alla Basilica si trova la Chiesa di Santa Maria del Suffragio dei Morti del XVI secolo, con la facciata che riproduce una tipologia molto diffusa nella Majella, il portale seicentesco con timpano triangolare sorretto da colonne poste su alte basi, con la decorazione barocca di due teschi affiancati dal retro. All’interno un pregevole altare in noce e il soffitto a cassettoni lignei è del 1637, realizzato dai pescolani Bernardino d’Alessandro e Falconio Falconi.”
“Di notevole pregio in ambito civile è il Palazzo Fanzago del XVII secolo, ricavato dall’ex convento di Santa Scolastica, progetto di Cosimo Fanzago che mostra i portali in pietra a tutto sesto, aperti nel corso del XIX secolo, per ospitare botteghe al pian terreno; le nicchie con le paraste ribattute da volute a mensole inginocchiate costituiscono un episodio chiave dell’opera di Fanzago, presentando analogie con l’altare della chiesa del Gesù e Maria e da visitare anche Palazzo Grilli edificazione del XVII secolo, Palazzo del Municipio del XVIII secolo che sull’architrave del portale ha scolpito riprodotto nel 1935, il motto SUI DOMINA, in ricordo della liberazione dal feudalesimo del paese da Ferdinando IV di Borbone, Palazzo Cocco dotato di eleganti finestre settecentesche, Palazzo Ricciardelli che deve il suo nome al patriota Nicola Ricciardelli e infine chiudiamo la rassegna delle bellezze architettoniche del borgo con le fontane di Pescocostanzo, la Fontana di Piazza Municipio del XVII secolo in ferro e pietra, con al centro uno stelo in ghisa contornato da tre putti seduti di scuola pescolana, dalle cui bocche esce l’acqua. Nel marchio impresso si legge di un restauro del Novecento, dove è stata aggiunta sulla cima una conca abruzzese sorretta da una figura umana, e la Fontana Maggiore del XV secolo, con quattro cannule che gettano l’acqua e un rilievo del Ciclo della Vita con figure umane e vegetali.”
Fonti:
Pescocostanzo – I Borghi più Belli d’Italia (borghipiubelliditalia.it)
Pescocostanzo (AQ), il borgo più bello d’Abruzzo! – YouTube
Visit Pescocostanzo | Home (visit-pescocostanzo.it)
Pesconline.it – Il Portale di Pescocostanzo – Pescocostanzo Hotel, B&B e Ristorante su Pesconline.it – Pescocostanzo è On Line
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 48° Eccellenza, , quella del comune di Guardiagrele in provincia di Chieti, il suo splendido Duomo di Santa Maria Maggiore. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 257, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Ai piedi delle Maiella, sul versante orientale, si trova Guardiagrele, un borgo dalla storia molto antica e ricca di avvenimenti, in cui molto prima della nascita di Cristo, le tribù italiche dalle quali sarebbe poi nata la città di Chieti, stabilirono importanti villaggi, conquistati poi dai romani e sviluppatisi in epoca medievale e rinascimentale. Nonostante i secoli trascorsi, del suo passato il paese conserva numerose testimonianze tra le quali un vero capolavoro dell’architettura sacra: la chiesa di Santa Maria Maggiore. La collegiata di Santa Maria Maggiore oggi duomo di Guardiagrele, è uno scrigno che custodisce opere di grande importanza nell’elaborazione del linguaggio rinascimentale che costituisce il più rilevante e articolato complesso monumentale cittadino ed è il risultato di ben otto secoli di trasformazioni architettoniche ed artistiche, che presenta una struttura complessa, frutto del susseguirsi delle fasi costruttive nei secoli e dei restauri del XII-XIII secolo e del XVIII secolo ed è caratterizzata da un’elegante facciata in pietra della Majella in cui è incorporata una massiccia torre campanaria, (che procurò alla città la definizione di “città di pietra” da Gabriele D’Annunzio ne “Il trionfo della morte”), dominata da un portale che ben rappresenta il gotico abruzzese, con le sue ricche lavorazioni a fasci di colonne e capitelli con motivi floreali e un archivolto a cordoni concentrici fortemente strombato.
La tradizione locale fa risalire l’edificazione della chiesa al 430 d.C., sui resti di un antico tempio pagano, mentre gli studi attuali attribuiscono l’origine a una chiesa cimiteriale del XIII secolo, la primitiva Santa Maria che venne edificata, tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., all’esterno della prima cinta muraria della Guardia collocata fuori dalle mura del castrum. Lo storico locale Francesco Paolo Ranieri parla appunto di due chiese ben distinte nel XIII secolo: Santa Maria e l’attigua Chiesa della Natività di Gesù, che verrà fusa nella nuova fabbrica dopo i danni del sisma del 1706. La chiesa subisce nel 1700 una totale trasformazione che ha restituito l’attuale impianto costituito da tre edifici: l’avancorpo, con il campanile e l’atrio, l’antica aula principale oggi cripta, la cappella della Madonna del Riparo, oggi chiesa di San Rocco e dell’edificio originale è sopravvissuto solo il prospetto sotto il portico meridionale, seppur con diverse aggiunte, come il secondo portale. Inserito nel 1578, quest’ultimo fu probabilmente ricavato da un blocco che in origine doveva essere un altare ed è caratterizzato da ricche decorazioni a treccia, grottesche e motivi floreali. Il portico fu prolungato nel 1882 oltre via dei Cavalieri, con l’affissione di un lastrone di pietra atto a coprire gli stemmi, affissi sul muro, delle famiglie guardiesi più importanti.
A seguito dell’espansione urbanistica della città, promossa dalla famiglia de Palearia (all’epoca conti di Manoppello), l’edificio perse la sua iniziale funzione, per acquisire il ruolo di fulcro della vita pubblica cittadina. Nella prima metà del Trecento la chiesa acquisì un discreto patrimonio fondiario e si dotò di un imponente corpus di corali miniati per le funzioni liturgiche, costituito da un Graduale in tre volumi e un Antifonario in quattro volumi. Nel 1365, per volere del nuovo conte di Manoppello, Napoleone Orsini, venne elevata al rango di chiesa collegiata e poi ampliata mediante la realizzazione di due porticati sui due prospetti laterali dell’edificio, con la cappella di San Giovanni Battista, eretta pochi anni dopo, che divenne cappella funeraria della famiglia Orsini. Agli inizi del Quattrocento venne introdotta la denominazione di Santa Maria Maggiore e, a seguito della cacciata degli Orsini, la nascente Universitas cittadina, che proprio nell’edificio riuniva i suoi parlamenti, promosse l’edificazione dell’imponente torre campanaria, inserita all’interno della facciata duecentesca. Sulla sommità della torre sono osservabili tracce che rimandano a una cella campanaria ottagonale, abbattuta dagli eventi sismici susseguitisi nel tempo, in particolare il terremoto del 1706, che implicò la ricostruzione di una torre campanaria quadrata, in stile diverso dal gotico della facciata, distrutta nel 1943.
Nei due secoli successivi allo spostamento del camposanto, la chiesa venne abbellita e arricchita con opere d’arte. Nel XIV secolo furono effettuate le principali modifiche all’edificio quali la costruzione della torre campanaria e il porticato settentrionale e nel secolo successivo vennero aggiunti o rinnovati altri importanti elementi architettonici e di arredo come il portale principale a sesto acuto, le monofore della facciata, gli affreschi sotto i porticati. Intorno agli anni ’30 del secolo, maestranze teutoniche, forse giunte al seguito diGualterius de Alemania e ancora attive in Abruzzo, realizzarono lo splendido portale gotico di facciata, impreziosito nella lunetta con ante in legno datate 1686 dal gruppo scultoreo dell’Incoronazione della Vergine, opera del maggior artista abruzzese, scultore e orafo del Quattrocento Nicola da Guardiagrele, esposto ora nel museo del duomo che fu inaugurato nel 1987, artista che nel 1431, realizzò anche una preziosa croce processionale di San Giovanni in Laterano in argento sbalzato e smalti, purtroppo trafugata nel 1979 insieme ai corali miniati trecenteschi e recuperata solo in parte ed esposta nel museo del Duomo.
Tra i vari oggetti d’arte si segnalano i frammenti della croce processionale d’argento del celebre del Quattrocento Nicola da Guardiagrele, firmata e datata 1431. La croce fu rubata anni fa, smembrata e immessa sul mercato antiquario clandestino per essere venduta a pezzi, di cui solo alcuni sono stati recuperati. Agli inizi del Settecento, dovendo ampliare la chiesa ma facendo fronte anche alla necessità di non ostruire via dei Cavalieri, l’interno del Duomo è rialzato di un piano da cui si accede mediante un arco alla cappella di San Rocco, per permettere l’accesso dalla medesima strada dei Cavalieri, si decise di ricorrere alla sopraelevazione dell’intera aula prolungandola fino alla chiesa della Madonna del Riparo, situata sul lato opposto della strada che divenne un locale di sgombero chiuso. Il soffitto a capriate lignee è stato ripristinato negli anni ’50, quando la chiesa era stata danneggiata dai bombardamenti della guerra. Il soffitto, dopo il terremoto del 1706, era stato realizzato a cassettoni con i lacunari ornati da fioroni. I muri sono scanditi da paraste alternate ad altari in stucco, dentro cui sono presenti statue o dipinti. Sul lato sinistro particolarmente rilevante sono la Deposizione, tela seicentesca del pittore ferrarese Giuseppe Lamberti, e il pulpito in legno di noce su cui sono incise scene della Vita di Gesù. Sul versante opposto è presente un paliotto medievale ricomposto con elementi in pietra eterogenei, dentro il quale è posta una composizione a formelle, sovrastato da una tela di fine Cinquecento che rappresenta l’Assunzione di Maria. Nella sagrestia sono conservati una Crocifissione di Francesco Maria De Benedictis, le Anime purganti di Nicola Ranieri e quattro episodi della Vita di Cristo, tutte opere di artisti guardiesi e risalenti al XIX e XX secolo.
Benché l’interno si mostri, a navata unica, prevalentemente barocco, con il soffitto a capriate, rifatto dopo il 1944, l’esterno è il punto di interesse della cattedrale, con la facciata a torre centrale, decorata da portale con una copia del gruppo dell’Annunciazione, di Nicola Gallucci, un finestrone centrale, e un piccolo oculo. Sulla sinistra e la destra si trovano due portici, uno con il gigantesco affresco rinascimentale del 1473 un affresco di Andrea De Litio di San Cristoforo pellegrino (unica opera firmata e datata dall’artista), che mostra il santo nell’atto di attraversare un corso d’acqua gremito di pesci sorreggendo sulle spalle il bambino Gesù, che a sua volta innalza un globo sul quale sono scritte le lettere A A E (iniziali dei tre continenti conosciuti allora); l’altro portico è più interessante, ha un orologio, sovrastato dalla riproduzione dello stemma civico di Guardiagrele, e all’interno un dipinto ad affresco della Madonna del Latte. Probabilmente alla prima fase costruttiva fanno riferimento le due date ‘1133’ e ‘1150’ incise sulla facciata, riportate negli scritti dallo storico settecentesco Anton Ludovico Antinori, ma che sono sparite. Certo è che nel 1256 il cimitero venne spostato nelle vicinanze della chiesetta di San Siro, l’attuale chiesa di san Francesco d’Assisi, poiché il fulcro della vita cittadina e delle sue principali attività si stava spostando a Santa Maria Maggiore.
La nuova chiesa di Santa Maria Maggiore è stata restaurata nel XX secolo dopo i danni dei bombardamenti alleati del 1943-44, con la sostituzione della copertura in favore di un tetto a capriate, mentre per la ricostruzione del campanile bisognerà attendere il 2009. Infatti il Duomo nonostante le ruberie subite nei secoli, conserva uno straordinario patrimonio di arredi sacri, vero e proprio tesoro della chiesa, conservati, all’interno della cripta ottenuta dalla sua ristrutturazione settecentesca, grazie all’impegno del parroco don Domenico Grossi, allo scopo di salvaguardare, valorizzare e rendere maggiormente fruibile un patrimonio che prima si trovava sparso per le chiese marsicane ed era spesso oggetto di furto. Il Museo che si articola in tre sale: nella prima, la sala dei paramenti sacri, sono esposti un piviale in taffetas del Settecento, pianete ricamate con fili d’oro e d’argento risalenti al XVIII e al XIX secolo, una tonacella d’inizio Novecento con ricami in stile Liberty e sette sculture del XVIII secolo: 4 busti-reliquiari d’influenza napoletana, un reliquario del Santissimo Salvatore, una statua di San Nicola Greco e l’Immacolata concezione che schiaccia il demonio, rappresentato sotto forma di drago. La seconda sala è dedicata a uno dei protagonisti del Rinascimento abruzzese, Nicola da Guardiagrele e la sua opera suddivisa in tre periodi stilistici: il primo in cui spunti personali e innovativi si mescolano con la tradizione gotica, il secondo periodo coincidente con il viaggio fiorentino e un sostanziale cambio del linguaggio, influenzato dallo stile del Ghiberti, il terzo, in cui il raffinato ed elegante umanesimo di estrazione fiorentina è messo in crisi da una tensione espressionistica, influenzato sia da Raffaello, sia dal Gotico tedesco. Al centro della sala troneggia la Madonna dell’Aiuto, statua lignea dipinta e dorata risalente al XV secolo, tra le teche contenenti due pregevoli corali miniati trecenteschi, rubati anch’essi insieme alla croce e solo di recente tornati a far parte del patrimonio artistico cittadino. La terza sala, denominata Arte del XIV secolo, conserva un prezioso cofanetto del Trecento decorato con scene di corte e animali fantastici, la croce reliquiario di scuola umbra proveniente dalla chiesa di San Nicola Greco e una raccolta di ostensori, calici, turiboli e pissidi in argento di manifattura napoletana. Completa la collezione un braccio reliquario di scuola sulmonese, destinata ad ospitare le reliquie di San Nicola Greco, patrono guardiese.
Sotto l’orologio un’edicola accoglie una statua di San Giovanni Battista, riconducibile alla seconda metà del Quattrocento. La chiesa di San Rocco, anticamente intitolata a Sant’Antonio abate e dopo il terremoto del 1706, dedicata alla Madonna del Riparo e poi nel ‘900 a san Rocco, è parte integrante della collegiata di Santa Maria Maggiore, risaliva al XIII secolo ed era collegata alla cattedrale mediante un portico di via Cavalieri e all’ex cappella della Madonna del Riparo. Testimonianze dell’antichità della chiesa sono date anche da due altari laterali ad arco ogivale, con decorazioni in gotico radiale teutonico, altri frammenti di altare sono conservati nel museo civico. Restaurata profondamente a seguito degli interventi di sopraelevazione settecenteschi di Santa Maria Maggiore, quando la chiesa attigua fu sconsacrata e adibita a biblioteca comunale. Si articola in tre navate ed è arricchita da decorazioni barocche in stucco policromo. L’arredo è composto da un confessionale e un pulpito a cipolla dell’ebanista orsognese Modesto Salvini e alcuni dipinti di Nicola Ranieri, fra cui il medaglione/affresco della Madonna del Latte di un ignoto artista quattrocentesco, in fondo alla navata centrale che si trova un’edicola interamente decorata sotto una campata ricoperta da ricche decorazioni barocche in stucco.
Il campanile, parte sommitale della facciata centrale, terminava a torre, inizialmente ottagonale, forse un tamburo con una cupola a cuspide, seguendo le torri rinascimentali delle cattedrali di Chieti, Teramo e Atei, seguendo le ipotesi dello storico Lucio Taraborrelli. A causa dei danni del terremoto della Majella del 1706, il campanile fu rifatto a torre quadrata in pietra, visibile in alcune foto storiche. Nell’occupazione francese del 25 febbraio 1799 furono rotte le campane. Negli anni 30 fu demolito per pericoli statici dopo il terremoto della Majella del 1933. Nel 1943 un bombardamento aereo danneggiò la chiesa, il portico settentrionale, nel 1944 i tedeschi trafugarono le campane per trasformarle in pezzi di artiglieria. Le campane vennero rifuse, tuttavia il castello di ferro, sul tetto scoperto fu montato solo nel 2009. Inizialmente fu montato nei primi anni ’90, per ospitare una sola campana, benché il concerto fosse stato già fuso, in fotografie della seconda metà degli anni ’90, esisteva un concerto simile a quello attuale, ma poi per difetti di realizzazione del “castello”, le campane sono state parcheggiate sino al 2009 sopra il portico Nord. Il concerto è uno dei più grandi d’Abruzzo e possiede 9 campane a slancio che sono state fuse nel 1999 ed elettrificate nel 2009 dalla Fonderia Capanni di Castelnovo ne’ Monti (RE), che sostituiscono le vecchie campane ora conservate nella suddetta fonderia, poste a ottagono: 4 maggiori laterali, fiancheggiate da 4 piccole, e infine il campanone collocato al centro superiormente. Un altro piccolo campanile si trova all’inizio del portico di destra, costituito da una mezza torretta rettangolare in pietra, sopra cui si trova una campana che non viene suonata; rimasuglio dell’antica chiesa della Natività di Gesù.
Come detto, si trovano incastonati nella parete, lo stemma della città e gli emblemi delle maggiori famiglie gentilizie di Guardiagrele, qui murati nel 1884 per non disperderli, che valorizzano gli stemmi nobiliari, con una lapide creata appositamente nel 1881 che si trova sul fianco sinistro del Duomo, con il compito di conservare tutti gli stemmi nobiliari delle più influenti famiglie guardiesi vissute dal Medioevo al XIX secolo, stemmi rimossi solitamente dalle architravi dei portali dei palazzi, alcuni dei quali scomparsi che offrono una preziosa testimonianza per tracciare la storia della vita locale dal XII sino al tardo Ottocento. Vediamoli in rapida successione: gli Ugni nobili guardiesi che avevano i feudi nella parte nord-occidentale della montagna, da Caporosso a Caprafico e Palombaro, Caprafico e signori dell’omonima contrada. Avevano la loro residenza fortificata presso il castello di Caprafico, i Palearia e il castello di Pagliara situato sopra Isola del Gran Sasso d’Italia (TE). La famiglia fu in rapporti col Regno di Napoli, nel Catalogus baronum (1150-1168) risulta di che Oderisio di Collepietro possedeva il feudo di Palearia, nel 1248 Innocenzo III confermò a Gualtiero di Palearia, conte di Manoppello, il possesso dei beni avuti da Federico II. I Palearia ebbero rapporti con Guardiagrele e i Caprafico, e dopo la venuta di Napoleone Orsini, andarono in decadenza. Gli Orsini, con capostipite della famiglia tal Orso di Bobone nel XII secolo. Nel 1276 Tommasa figlia di Gualtieri di Palearia sposò Subiaco conte di Chieti, e la loro figlia Maria andò in moglie a Napoleone I Orsini, che entrò nei possedimenti di Manoppello, San Valentino, Guardiagrele, Casoli e Pagliaria. Gli Scioli, con lo stemma recante il nome di Giulio Scioli, capostipite del casata. I Carrara e di questa famiglia si ricorda Ardizzione, luogotenente del capitano Braccio da Montone, al servizio di Giovanna II d’Angiò; nel 1423 fu inviato in Abruzzo insieme a Niccolò Piccinino per preparare l’assedio de L’Aquila. I De Sorte e il loro stemma dal tronco d’albero con due grandi pomi cadenti dai rami. Non si sa molto della famiglia, sennonché il cognome ha dato lustro al personaggio teatrale Antonio De Sorte detto “Frappiglia”, maschera comica della commedia dell’arte abruzzese. I Farina, originari di Casalincontrada, uniti con i D’Alena, lo stemma è scudo d’azzurro al giglio di giardino al naturale, fiorito di sei pezzi, tre per parte, nodrito sulla vetta più alta fra le tre di un colle al naturale verdeggiante; detto giglio accostato di sei stelle a sei raggi d’oro ordinate in palo tre e tre nei fianchi dello scudo. I Vallereggia, originari di contrada Valle Regia dove avevano il castello, possiedono lo stemma con il cimiero di un cavaliere in cima, e lo scudo blasonato con nella parte superiore due corone di fiori, e in basso una solo. Gli Stella, originari di Villa Maiella-Colle Barone, si conserva della loro presenza il torrione posto su vis Occidentale, coevo di Torre Adriana. Lo scudo è tripartito orizzontalmente in cima da tre gigli, e negli altri riquadri da due, e da una stella. Gli Accursio, provenienti da un castello presso L’Aquila, lo stemma è inquartato nel 1 e nel 4 d’argento all’aquila spiegata di nero; nel 2 e nel 3 d’azzurro al leone d’oro rivoltato. I Passarotti che risultano al catasto onciario del 1753, dove si nomina tale Apostolico Passarottio Ferdinando, sposato con Anna Carmela De Lauro. Gli Elisii che apparirono nel catasto onciario del 1609 come “Lisii”, poi nel XVIII cambiato nell’attuale (1753). Lo stemma mostra un cipresso ornato in cima da tre stelle, e in basso da due boccioli che nascono dal terreno ha la cornice molto ben elaborata da motivi barocchi, che in basso ritraggono il volto di un uomo, con la barba che si fonde nei riccioli con la stessa cornice.