Eccellenza d’Abruzzo n. 52 – Lanciano (CH): il Miracolo Eucaristico

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 52° Eccellenza, , quella del comune di Lanciano in provincia di Chieti, con il Miracolo Eucaristico. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 253, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

“Il miracolo eucaristico di Lanciano si è verificato nella città abruzzese di Lanciano nella prima metà dell’VIII secolo: mentre un sacerdote stava celebrando la messa, al momento della consacrazione l’ostia e il vino si sono trasformati in carne e sangue. Le famose reliquie del Miracolo Eucaristico di Lanciano, il più antico e noto miracolo eucaristico della storia documentato, si trovano a Lanciano all’interno della Chiesa Santuario di San Francesco o Santuario del Miracolo Eucaristico annessa all’omonimo convento dei frati Minori Conventuali nello storico quartiere Borgo.”

“Tutto ebbe inizio nel vecchio convento di San Legonziano, primitivo edificio convento dei Santi Legonziano e Domiziano, che compone oggi le fondamenta del nuovo convento francescano del XIII secolo, che sarebbe sorto, secondo la tradizione, sui resti di un’antica chiesetta eretta nel luogo in cui sarebbe stato ucciso il centurione lancianese Longino, colui che si convertì dopo aver trafitto il costato di Cristo in croce. Quella di Longino è un’altra straordinaria storia che lega Lanciano in modo potente alla figura di Gesù Cristo. Annoverare in un unico luogo dove si verificò il primo incredibile Miracolo Eucaristico della storia e dove fu ucciso il centurione che inferse con la lancia la famosa ferita al costato di Gesù in croce che diede luogo al miracolo dell’uscita di acqua dal suo petto, è qualcosa di meraviglioso e su cui si potrebbe, e non per mero business, organizzare una strategia di turismo religioso senza precedenti. Ma torniamo al Miracolo Eucaristico!”

“Il convento, con l’annessa chiesa, fu affidato a un gruppo di monaci di rito greco, i Basiliani (VIII secolo) e in questo luogo si verificò il famoso “Miracolo Eucaristico di Lanciano” che avvenne in un anno imprecisato del 700 d.C., quando i Basiliani avevano in custodia il monastero. Essi si trasferirono a Lanciano nel periodo in cui Leone III Isaurico iniziava la persecuzioni iconoclaste; alcuni discepoli di San Basilio (329-379), vescovo di Cesarea, si trasferirono verso occidente nella città di Anxanum e secondo la tradizione un monaco basiliano, che a causa dell’assenza di fede dubitava del miracolo della Resurrezione, celebrando la messa vide l’ostia consacrata tramutarsi in carne viva, e il vino del calice in sangue poi coagulatosi in cubetti rossi. Non si hanno molti documenti al riguardo, a causa di dispersione del materiale, così che il primo documento ufficiale risale al 1631, e riferisce nei minimi particolari l’accaduto del miracolo. Nei pressi del presbiterio della chiesa si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove è narrato l’evento. Altre ricognizioni si ebbero negli anni a seguire, specialmente quelle scientifiche degli anni ’70 del Novecento. I monaci Basiliani stettero a Lanciano fino all’XI secolo, quando vennero cacciati dalla città perché si macchiarono di misfatti come omicidi e rapine. Il monastero andò in custodia alla fiorente abbazia di San Giovanni in Venere dell’ordine benedettino. Il fatto fece scatenare polemiche interne tra i vescovi di Lanciano, perché la chiesa fungeva da parrocchia ed era una delle principali della città, avendo perso tutti i benefici, i diritti e le rendite sui terreni. La contesa fu risolta con l’elevazione a parrocchia della vicina chiesa di Santa Lucia, edificata sopra il tempio di Giunone che venne eretta, in stile gotico, tra il 1252 e il 1258 dai frati Minori Conventuali divenendo una delle prime chiese conventuali in Abruzzo, sulla sottostante chiesa di San Legonziano, luogo di culto che fu lo scenario del miracolo eucaristico.”

“Insediatisi a Lanciano nel 1240-50, i Francescani vivevano la precarietà distintiva dell’Ordine, e collaboravano con il clero cittadino ed ebbero in quel periodo la possibilità di ricostruire il vecchio convento con una nuova chiesa, dotata di complesso monastico, con atto del 3 aprile 1252 ed iniziata in quell’anno, la chiesa venne completata nel 1258 sopra le fondamenta del convento di San Legonziano. Tra il 1730 e il 1745 il santuario fu oggetto di massicci interventi di adeguamento ai canoni estetici del periodo, che gli conferirono l’attuale aspetto barocco, con navata unica ampia ed alta.  Nel 1809 in seguito alle vicende storiche dell’occupazione francese del Regno di Napoli, gli Ordini furono soppressi, i beni ecclesiastici furono trasferiti ai privati, e così il convento di San Francesco venne chiuso, eccezione per la chiesa. I frati poterono tornare solo il 21 giugno 1953, quando gran parte del monastero era stata cambiata, adibita prima a caserma, poi a uffici e scuole. L’Arcivescovo di Lanciano Monsignor Benigno Migliorini permise la riapertura del convento, che però venne successivamente riconvertito in ostello per i pellegrini del Miracolo Eucaristico. Il 4 novembre 1974 il santuario fu visito dal Cardinale Karol Wojtyla. L’opera di restauro in occasione del Giubileo del 2000 ha restituito alla chiesa il suo splendore settecentesco.
Il portale bronzeo dalla tipica formazione ogivale d’impronta borgognosa francese, stupendamente lavorato, dato in dono nel 1975 da un benefattore che sostituisce quello antico in legno, reca impresso sulla lunetta “S. Francesco in posa di saluto“. Nella parte inferiore della lunetta è rappresentata la leggenda del Miracolo Eucaristico, sul lato sinistro incisa la scena del miracolo di Santa Chiara sui Saraceni, e il miracolo di Sant’Antonio con la mula. In basso verso il lato sinistro è rappresentato il Sacrificio del Beato Massimiliano Kolbe nei campi di sterminio; sul lato destro è rievocato l’Anno Santo 1975. L’ex convento è chiamato oggi “Casa San Francesco“.”

“Sul lato sinistro della navata unica, sono posti gli altari in onore della “Madonna delle Grazie”, della “Madonna del Rosario” e di “Sant’Antonio di Padova”. Sul lato destro sorgono gli altari della “Vergine degli Angeli”, di “San Francesco d’Assisi” e del “Miracolo Eucaristico“, dove si trovava prima della ricollocazione presso l’altare maggiore.  La grata cubica, in ferro battuto decorato, fu realizzata da artigiani di Guardiagrele, e servì a custodire le reliquie del Miracolo dal 1636 al 1902 nella “Cappella Valsecca“, celate da una tela raffigurante il Miracolo stesso. All’epoca il Miracolo si poteva vedere solo in due occasioni: il Lunedì dell’Angelo e ciascun giorno dell’ultima settimana di ottobre. Il baldacchino che ricopre il tronetto delle Reliquie realizzato in marmo bianco di Carrara è sostenuto da quattro colonne lavorate, con le splendide figure dei due angeli inginocchiati, a destra e sinistra, in atto di adorare.”

“Ecco alcune piccole meraviglie interne: la Cappella della Riconciliazione la cui scala è un invito a salire la vetta della perfezione cristiana, il cielo azzurro dipinto sulla volta raffigura il Regno di Dio. La Cappella dell’Adorazione in cui si conservò il Miracolo fino al 1636, prima di essere spostato nell’altarino fino al 1902. Il luogo corrisponde alla base del campanile, forse scelto per proteggere le Reliquie dagli attacchi degli Ottomani che imperversarono nelle zone frentane nel XVI secolo. Il convento permette l’accesso laterale alla chiesa e al complesso archeologico del monastero di San Legonziano e alla sala del Museo permanente del Miracolo Eucaristico, dove sono conservate alcune tele settecentesche, dei frammenti italici rinvenuti negli scavi del 1994, e preziosi paramenti liturgici e dei pannelli descrittivi che spiegano la storia religiosa del Miracolo e gli studi scientifici del Novecento. Gli scavi effettuati sotto l’area dell’attuale chiesa di San Francesco, hanno consentito di localizzare l’impianto della chiesa originale del Miracolo esattamente nella zona della cisterna romana, con un muro, dove è stato scoperto il lacerto dell’abside dove nell’VIII secolo, secondo la tradizione si verificò il Miracolo, antico impianto del vecchio convento di San Legonziano, accessibile attraverso una moderna scalinata dalla sala del Museo del Miracolo. Il piccolo vano dove si sarebbe verificato il Miracolo è molto semplice, in pietra grezza, ed è stato provvisto di un altare e di panche, insieme a una targa commemorativa.”

“Dopo questa lunga premessa, è arrivato il momento in questo articolo di parlare dello straordinario evento del Miracolo Eucaristico di Lanciano avvenuto circa l’anno settecento. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell’Imperatore Leone III, l’Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia). In concomitanza della “lotta iconoclasta” nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano. Un giorno, mentre un monaco stava celebrando la messa nella chiesa dei santi Legonziano e Domiziano a Lanciano, venne colto dal dubbio circa la reale presenza di Gesù nella Santa Eucaristia, nell’ostia e nel vino. Le fonti dell’epoca non hanno tramandato l’identità del sacerdote, specificando solo che si trattava di un religioso di rito bizantino appartenente all’ordine dei basiliani. Un documento del 1631 descrive il sacerdote in questione come «non ben fermo nella fede, letterato nelle scienze del mondo, ma ignorante in quelle di Dio; andava di giorno in giorno dubitando se nell’ostia consacrata vi fosse il vero Corpo di Cristo e così nel vino vi fosse il vero Sangue». Dopo che ebbe pronunciato le parole della consacrazione, secondo quanto tramandato dalla tradizione l’ostia si trasformò in un pezzo di carne sanguinante, mentre il vino si tramutò in sangue, successivamente coagulatosi in cinque grumi di diverse dimensioni. Il sacerdote diede allora notizia ai fedeli presenti in chiesa di ciò che era accaduto.”

“La sua reazione di fronte alla inattesa mutazione che coinvolse anche le specie sacramentali fu che: “Da tanto e così stupendo miracolo atterrito e confuso, stette gran pezzo come in una divina estasi trasportato; ma, finalmente, cedendo il timore allo spirituale contento, che gli riempiva l’anima, con viso giocondo ancorché di lacrime asperso, voltatosi alle circostanti, così disse: ‘O felici assistenti ai quali il Benedetto Dio per confondere l’incredulità mia ha voluto svelarsi in questo santissimo Sacramento e rendersi visibile agli occhi vostri. Venite, fratelli, e mirate il nostro Dio fatto vicino a noi‘”. E’ il sentimento comune che si accompagna ad ogni esperienza di Dio e del suo misterioso agire con i figli degli uomini. Il pane e il vino, investiti dalla forza creatrice e santificatrice della Parola, si sono mutati improvvisamente, totalmente e visibilmente in Carne e Sangue. Non abbiamo nessun elemento in mano che ci permetta di fissare il giorno, il mese o l’anno preciso in cui l’Evento si è verificato, ma una dolorosa vicenda datata all’anno 725 e che determinò un incremento del flusso migratorio dei monaci greci in Italia, tra cui la piccola comunità approdata a Lanciano possono far ritenere fondatamente e ragionevolmente con buona approssimazione che il Miracolo si sia verificato tra gli anni 730-750 dell’era cristiana.”

“Prescindendo dai positivi risultati della ricerca scientifica, chi desidera conoscere la storia e il culto delle Reliquie del Miracolo Eucaristico, ha disponibili altri dati informativi disseminati nel tempo; tuttavia non dovrebbe sorprendere nessuno la scarsità del materiale documentario su un evento che risale al 700 d.C.. Purtroppo e non solo dalla frequentazione archivistica, ma anche da altre fonti risulta di constatare la scomparsa sconsiderata di documenti e la distruzione incosciente di pergamene avvenuta in Lanciano e altrove.  Pertanto, il primo documento scritto risale al 1631 e riferisce nei minimi particolari l’accaduto al monaco. Nei pressi del presbiterio del santuario, sul lato destro della Cappella Valsecca, si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove in sintesi è narrato l’Evento. Possiamo aggiungere in questa sezione anche le diverse Ricognizioni sul Miracolo, verifiche storiche e giuridiche per affermare nei secoli l’autenticità del Miracolo da parte dell’Autorità ecclesiastica. La prima Ricognizione avvenne nel 1574 dall’Arcivescovo Gaspare Rodriguez, il quale constatò che il peso totale dei cinque grumi di sangue equivaleva al peso di ciascuno di essi. Questo fatto straordinario non fu verificato ulteriormente. Il peso attuale complessivo di grumi è di g. 16,505, quello di ciascuno di essi è di g. 8; di g. 2,45; di g. 2,85; di g. 2,05 e di g. 1,15. Bisogna aggiungere mg. 5 di polvere di sangue. Diversi documenti attestano a partire dal secolo XVI, la venerazione resa alle “reliquie” e l’uso che si aveva di portarle in processione in momenti di necessità gravi e urgenti. Altre ricognizioni avvennero nel 1637, 1770, 1866, 1970.”

“Siamo in Abruzzo, in provincia di Chieti, nella città di Lanciano. A due passi dalla centralissima piazza Plebiscito, nel cuore del centro storico era aperta al pubblico una chiesetta dedicata a San Legonziano, affidata dal senato e dal popolo di Lanciano ad un modesto nucleo di monaci basiliani, approdati nel capoluogo frenano come profughi. Il Miracolo Eucaristico si verificò in tale tempio e tra le mani di uno di questi monaci orientali. Recenti ricerche archeologiche confermano abbondantemente la presenza di bizantini in zona all’epoca di cui parliamo. Si sono, infatti, rinvenuti reperti ceramici decorati a bande, tipici dell’età bizantina. L’archeologo Andrea Staffa sostiene: “Esattamente al di sotto dell’attuale altare del Santuario (della chiesa di san Francesco) è stata evidenziata un’aula in muratura di conci quadrangolari di pietra, forse riconducibili all’impianto originario del luogo di culto”. Le Reliquie del Miracolo furono custodite nella chiesetta originaria sino al 1258, passando successivamente dalle mani dei basiliani in quelle dei benedettini (c. 1074) e, dopo la parentesi arcipretale (1229-1252), nelle mani dei francescani. La vicinanza del fiorente monastero di San Giovanni in Venere in quel di Fossacesia, monastero oggi affidato ai Padri Passionisti, in coincidenza con il tramonto della presenza bizantina, favorì l’insediamento dei benedettini nella chiesa di San Legonziano, appunto tra gli anni 1047 e 1076.  Successivamente la chiesa del Miracolo fu affidata al clero locale, nella persona dell’arciprete fino alla venuta dei francescani il 3 aprile dell’anno 1252. Nel 1258 i frati francescani ricostruirono la chiesa e la dedicarono a San Francesco. Questi religiosi, a loro volta, dovettero lasciare il luogo nel 1809, quando Napoleone I soppresse gli ordini religiosi. Essi riebbero il loro antico convento solo nel giugno 1953. Le reliquie, chiuse in un reliquiario d’avorio, furono custodite prima nella chiesa di San Legonziano, poi in quella di San Francesco. Al tempo delle incursioni dei turchi negli Abruzzi, un frate minore, chiamato Giovanni Antonio di Mastro Renzo, volle salvarle e, il 1 agosto 1566, partì portandole con sé. Ma dopo aver camminato tutta la notte, si trovò il mattino dopo, ancora alle porte di Lanciano. Capì allora che lui e i suoi compagni dovevano rimanervi per conservare le reliquie. Queste, una volta passato il pericolo, furono poste su un altare degno di esse, sul lato destro dell’unica navata della chiesa conventuale, chiuse in un vaso di cristallo, deposto, questo, in un armadio di legno, chiuso con quattro chiavi. Nel 1920, le reliquie furono poste dietro il nuovo altare maggiore. Dal 1923, la “carne” è esposta nella raggiera di un ostensorio, mentre i grumi di sangue disseccato, sono contenuti in una specie di calice di cristallo ai piedi di questo ostensorio. In novembre 1970, per le istanze dell’arcivescovo di Lanciano, Monsignor Perantoni, e del ministro provinciale dei Conventuali di Abruzzo, e con l’autorizzazione di Roma, i Francescani di Lanciano decisero di sottoporre a un esame scientifico queste “reliquie” che risalivano a quasi 12 secoli. Il compito fu affidato al dott. Edoardo Linoli, capo del servizio all’ospedale d’Arezzo e professore di anatomia, di istologia, di chimica e di microscopia clinica, coadiuvato del prof. Ruggero Bertelli dell’Università di Siena, che effettuò dei prelevamenti sulle sacre reliquie, il 18 novembre 1970, poi eseguì le analisi in laboratorio. Il 4 marzo 1971 e presentò un resoconto dettagliato dei vari studi fatti. Ecco le conclusioni essenziali: 1) La “carne miracolosa” è veramente carne costituita dal tessuto muscolare striato del miocardio. 2) Il “sangue miracoloso” è vero sangue: l’analisi cromatografica lo dimostra con certezza assoluta e indiscutibile. 3) Lo studio immunologico manifesta che la carne e il sangue sono certamente di natura umana e la prova immunoematologica permette di affermare con tutta oggettività e certezza che ambedue appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB, indicando l’appartenenza della carne e del sangue alla medesima persona, con la possibilità tuttavia dell’appartenenza a due individui differenti del medesimo gruppo sanguigno, ma lo stesso della Sacra Sindone e del sacro sudario. 4) Le proteine contenute nel sangue sono normalmente ripartite, nella percentuale identica a quella dello schema siero-proteico del sangue fresco normale. 5) Nessuna sezione istologica ha rivelato traccia di infiltrazioni di sali o di sostanze conservatrici utilizzate nell’antichità allo scopo di mummificazione.

Nel 2006 il professor Silvano Fuso, membro del CICAP, prendendo come esempio la presenza di proteine nelle mummie egizie, affermò che «la conservazione di proteine e di minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale». Tuttavia, lo stesso Fuso proseguì affermando che «il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici». Certo, la conservazione di proteine e dei minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale: le analisi ripetute hanno permesso di trovare proteine nelle mummie egiziane di 4 e di 5.000 anni, ma é opportuno sottolineare che il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti, è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici. Il prof. Linoli scarta anche l’ipotesi di un falso compiuto nei secoli passati: “Infatti, dice, supponendo che si sia prelevato il cuore di un cadavere, io affermo che solamente una mano esperta in dissezione anatomica avrebbe potuto ottenere un “taglio” uniforme di un viscere incavato (come si può ancora intravedere sulla “carne”) e tangenziale alla superficie di questo viscere, come fa pensare il corso prevalentemente longitudinale dei fasci delle fibre muscolari, visibile, in parecchi punti nelle preparazioni istologiche e se il sangue fosse stato prelevato da un cadavere, si sarebbe rapidamente alterato, per deliquescenza o putrefazione.”

Nel 1981 i francescani di Lanciano fecero eseguire una nuova analisi sulla carne. La relazione, stilata al termine degli esami e pubblicata nel 1982 con il titolo Studio anatomo-istologico sul “cuore” del Miracolo Eucaristico di Lanciano (VIII sec.), ribadì i risultati del 1971. La carne appare raggrinzita ma, anche idealmente distendendola, non sarebbe possibile colmare interamente lo spazio vuoto al centro dell’ostia: lo studio ritiene che lo spazio vuoto corrisponda a un ventricolo, probabilmente il sinistro, a giudicare dallo spessore del mantello miocardico. In nessuna sede sono state ritrovate tracce di sostanze conservanti. “Un’epigrafe, realizzata nel 1636, descrive così l’evento: «Circa gli anni del Signore settecento, in questa chiesa, allora sotto il titolo di San Loguntiano de’ monaci di San Basilio, dubitò un monaco sacerdote se nell’hostia consecrata fusse veramente il corpo di Nostro Signore e nel vino il sangue. Celebrò messa, e, dette le parole della consecratione, vidde fatta carne l’hostia e sangue il vino. Fu mostrata ogni cosa a’ circostanti et indi a tutto il popolo. La carne è ancora intiera et il sangue diviso in cinque parti dissuguali che tanto pesano tutte unite, quanto ciascuna separata. Si vede hoggi nello istesso modo in questa cappella, fatta da Gio. Francesco Valsecca a sue proprie spese l’anno del Signore MDCXXXVI.»”

“Le reliquie vennero chiuse in una teca d’argento e avorio, posta in un tabernacolo alla destra dell’altare maggiore. Nel 1566, nel timore che i turchi potessero profanarle, vennero murate in una piccola cappella. Dal 1636 le reliquie furono protette da una grata in ferro battuto chiusa a chiave. Nel 1713 vennero realizzati l’ostensorio e il calice in cristallo di scuola napoletana, all’interno dei quali l’ostia e il sangue sono tuttora conservati. Nel 1902 l’ostensorio fu posto all’interno di una struttura in marmo costruita sopra l’altare maggiore. Alcuni ritengono, senza però indicare fonti verificabili, che del miracolo di Lanciano si sarebbero occupati anche l’ONU e il consiglio superiore dell’OMS i quali, nel 1976, avrebbero pubblicato una relazione favorevole alla miracolosità dell’evento. Tuttavia né gli studi di Odoardo Linoli, pubblicati nel 1982, né la Santa Sede, che si occupò di Lanciano in un lungo articolo su L’Osservatore Romano del 23 aprile 1982, menzionano la presunta relazione dell’ONU e dell’OMS.”

A Lanciano nel 1273, si sarebbe verificato un secondo miracolo eucaristico: secondo quanto tramandato dalla tradizione, una donna, su invito di una fattucchiera a cui si era rivolta, gettò un’ostia consacrata nel fuoco, ma la particola si trasformò in carne, da cui sgorgò abbondante sangue. Parte delle reliquie furono portate a Offida, dove sono ancora visibili nel santuario di Sant’Agostino; per questa ragione l’episodio è tradizionalmente ricordato come “miracolo eucaristico di Offida”. Alcuni frammenti del presunto miracolo sono tuttavia conservati nella piccola Chiesa di Santa Croce, lungo Via dei Frentani a Lanciano, nel Quartiere Lancianovecchia.

FONTI

https://www.miracoloeucaristico.eu/

https://it.wikipedia.org/wiki/Miracolo_eucaristico_di_Lanciano

https://it.wikipedia.org/wiki/Anxanum

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 51 – Pettorano sul Gizio (AQ): il Borgo Medievale

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 51° Eccellenza, , quella del comune di Pettorano sul Gizio in provincia di L’Aquila, con lo splendido Borgo Medievale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 254, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

“Le origini dell’attuale abitato di Pettorano sul Gizio risalgono all’epoca medievale, ma il territorio circostante e le alture vicine al paese vennero frequentate dall’uomo fin dal paleolitico. Ricerche condotte lungo le pendici del Monte Genzana e in varie zone circostanti hanno fornito testimonianze antichissime, con ritrovamento di utensili appartenuti ai primi cacciatori che frequentavano e sporadicamente abitavano queste lande. Tra i numerosi reperti antichi rinvenuti nel territorio o riutilizzati nel paese sono da citare, oltre ad alcune epigrafi in dialetto peligno, un importantissimo frammento in greco dell’Edictum de pretiis rerum venalium, documento di carattere economico emanato nel 301 d.C. dagli imperatori Diocleziano e Galerio (in oriente) e Massimiano Erculeo e Costanzo (in occidente). Il frammento, l’unico in greco conosciuto in occidente, fu probabilmente portato a Pettorano nel corso del XIX secolo e si conserva in una casa gentilizia privata.
Al di là delle fabulae a sfondo storico rintracciabili in alcune pagine storico locali, spesso eccessivamente campanilisti, le origini del paese attuale sono da ricercare nel periodo medievale, nella fase in cui i pagi e i vici di tradizione tardoantica venivano uniti in un unico complesso urbanistico per motivi difensivi, politici ed economici. Uno storico pettoranese del XIX secolo Nicola Bonitatibus, ha così ben descritto la formazione di Pettorano: “Undeci, ed anche più si vuole che fussero le Ville, le quali, unitesi in società circa il decimo secolo, si determinarono ad eriggere Pettorano nel luogo dove al presente si vede. Lo circuirono di muri, e di torri, e lo munirono d’una fortezza, per far fronte a comuni inimici, ed agli invasori”. Per il Bonitatibus, quindi, le originarie vite, che avrebbero poi dato origine all’attuale abitato, potevano essere individuate nelle superstiti chiesette rurali, eredi degli antichi pagi e da lui recensite su tutto il territorio in numero superiore ad undici.”

Nel corso dell’XI secolo, grazie alle importanti trasformazioni economiche attuatesi tra la fine del X e l’inizio dell’XI, si verificò il fenomeno dell’incastellamento, ovvero della fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello, inteso come concentrazione di uomini ed interessi Nel corso del XVII secolo si assistette ad un vero e proprio arricchimento della tipologia architettonica, con la costruzione o la ristrutturazione dei più imponenti palazzi nobiliari del paese, dal Palazzo Croce al Palazzo Gravina, dalla Castaldina al Palazzo Vitto-Massei. Nel XVI secolo vede la luce il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono notevoli resti, con un allargamento della superficie difesa e protetta dal castrum e la sua struttura urbana ha assunto la forma odierna nel tardo medioevo, quando fu costruita la cinta muraria con le sei porte, cinque delle quali sono ancora visibili, per cui vediamole in rapida successione: Porta San Nicola con l’affresco seicentesco di notevole interesse situato nella parte più alta dell’arco sopra l’arco raffigura Santa Margherita che sorregge il paese con la mano sinistra e con la destra una croce. in cui è raffigurata, tra due colonnine terminanti a fiaccola. L’opera potrebbe essere datata intorno al 1656, come suggerisce una targa recentemente riportata alla luce da lavori di restauro. Abbiamo poi Porta Cencia, Porta San Marco, Porta del Mulino e Porta Santa Margherita. La Port del Mulin, è il più modesto degli accessi al paese ma assai utile in passato e come suggerisce il nome, perché attraverso questo passaggio oggi si accede al parco di archeologia industriale, nel passatosi accedeva ai mulini sul fiume Gizio, fatti costruire dai Cantelmo ed attualmente la zona, assai suggestiva dal punto di vista naturalistico, conserva ancora i resti di queste antiche costruzioni (alcune risalenti al XVI secolo), e della ramiera ducale officina per la lavorazione del metallo. La Porta Cencio detta anche Reale o delle Manare deve queste diverse denominazioni a varie situazioni; il toponimo Cencia designava la piazzola antistante a forma circolare, come una cintura (dal latino cingula, cintura) realizzata su un dirupo. L’antica denominazione delle Manere o Manare si potrebbe collegare con la quasi omonima Porta Manaresca di Sulmona e spiegabile con l’espressione latina “mane arescit” ad indicare l’aridità del suolo per la lunga esposizione al sole (le porte sono esposte entrambe ad oriente) oppure derivante dal nome Manerio, conte di Valva e Signore di Pacentro. Solo dopo il 1832, quando il re Ferdinando II di Borbone entrò nel paese attraverso questa porta, assunse il nome di Porta Reale.  La Porta San Marco o delle Macchie era ed è tuttora l’accesso più vicino al castello. La statua che sovrasta l’arco rappresenta Sant’Antonio, posto tra due pinnacoli. Nelle vicinanze doveva trovarsi una chiesa dedicata a San Marco, ricordata in alcuni documenti, che dette il nome alla zona e alla porta. La denominazione secondaria si deve invece al fatto che da questa porta parte una strada, un tempo denominata via delle Macchie, che conduce alla Chiesa di San Rocco. Infine Porta S. Margherita o delle Frascare, con l’etimologia popolare che riconduce il nome secondario della porta al fatto che vi passassero i taglialegna per andare in montagna a fare le frasche.

 

“Da sottolineare che il centro storico di Pettorano ricade tutto all’interno dell’area protetta del “Monte Genzana Alto Gizio”, caso unico tra le riserve naturali regionali, per cui precisi vincoli tutelano così le bellezze della natura insieme a quelle edificate dall’uomo, con la Riserva che è un corridoio ecologico tra i due Parchi Nazionali d’Abruzzo e della Majella e racchiude numerosi ambienti naturali e specie animali e con un panorama tra i più belli d’Abruzzo che da vita a luoghi che avevano già affascinato Ovidio negli Amores.

Il borgo, come a testimoniare il ricordo di antiche usanze, espressioni di cultura ma anche di modelli organizzativi di vita sociale basata su regole di sapiente gestione del patrimonio culturale e naturale, è ancora ricco di feste e tradizioni come pochi altri paesi d’Italia, infatti restano vivi i costumi delle donne, il re Carnevale, i ceri sui davanzali delle finestre nei giorni dei Morti, i rituali primaverili di ispirazione pagana, i culti agrari, la pietra di cui è fatto il borgo, l’aria frizzante di montagna, l’acqua del fiume Gizio che da sempre scorre accanto.”

“A Pettorano eletto da Abruzzomania a eccellenza di borgo medievale, si respira ancora un forte senso di Medioevo che viene ingentilito dai portali e dagli arzigogoli barocchi sparsi qua e là. Il vuoto nel tessuto urbano lasciato dall’emigrazione viene sovrastato dalla bellezza delle antiche stradine o “rue” che scendono verso le mura snodandosi tra scalette, cortili, antichi edifici arricchiti da iscrizioni e stemmi incisi dal tempo. In ogni momento si può rimanere sorpresi e affascinati dagli scorci naturali che si creano verso la montagna che avvolge da sempre il borgo. All’interno delle mura molti sono gli edifici di pregio, per la maggior parte frutto di demolizioni e ricostruzioni, in epoca tardo-rinascimentale e barocca, di edifici antecedenti al XV secolo.”       A Pettorano sul Gizio si è circondati da veri tesori architettonici che siamo soliti   nelle famose città d’arte, diversi e pregevoli che testimoniano il suo antico periodo d’oro. In questo borgo d’arte dotato di una straordinaria eleganza architettonica si trovano palazzi signorili, castelli e torrioni, portali antichi, possenti archi, fontane monumentali, bifore fiorite, battenti e balconi in pietra lavorata.”

“Come il ristrutturato e imponente Castello dei Cantelmo, vera eccellenza del borgo che pur mancando fonti certe, dovrebbe essere stato costruito attorno al XI secolo, come evoluzione dell’ancora esistente torrione centrale di avvistamento, che faceva parte di un sistema di difesa composto dai castelli, oggi trasformato in una moderna struttura espositiva. Il palazzo Ducale, altro regno dei Cantelmo e loro residenza privata, detto La Castaldina e anche “Castellina“, sede degli amministratori Castaldi che facevano le veci dei Cantelmo con la facciata, del 1794, di gusto barocco.in cui nella corte interna (attuale piazza Zannelli) si ammira la bella fontana in pietra, decorata con motivi vegetali, fatta costruire da Fabrizio II Cantelmo nella prima metà del XVII secolo, come si legge nell’iscrizione ancora ben visibile sulla base. La facciata principale è visibile uno stemma inciso nella pietra e dipinta un’antica meridiana, arricchita da una cornice raffigurante i segni zodiacali ed altri elementi celesti.

 

Altre bellezze architettoniche sono la Fontana monumentale di Piazza Umberto del 1897,  sul fianco della chiesa madre, con una vasca in pietra con sopra una più piccola vasca in bronzo a forma di conchiglia che riceve l’acqua da due mascheroni. Su di essa vi sono due splendide statue in bronzo raffiguranti Nettuno ed Anfitrite. Più in alto ancora vi è lo stemma di Pettorano con un’armatura romana “pectoralis” da cui forse deriverebbe il nome del paese. A Pettorano è possibile ammirare anche altri meravigliosi Palazzi, come il palazzo De Stephanis, la cui facciata è un trionfo di gusto rococò, il palazzo Croce, che conserva al suo interno l’unico frammento rinvenuto in Occidente dell’Editto di Diocleziano (301 d.C.), il palazzo Giuliani, altro imponente edificio del XVIII sec., e palazzo Vitto-Massei. 

“Pettorano sul Gizio è non solo questo, come non ricordare anche le sue squisite eccellenze culinarie che annoverano la polenta rognosa cotta rigorosamente nel paiolo di rame con acqua del Gizio, farina di mais “otto file”, spuntature di maiale, olio evo, pecorino abruzzese. e tagliata a fette con un filo. Tipici anche i mugnoli e chezzerieje, gnocchetti lavorati con acqua e farina e conditi con la gustosa verdura degli ortolani–pastori. Le Crostele, speciali “Ciambelle fritte” a base di patate, le Pizzelle Dolci, i ceci ripieni, una sfoglia con ripieno di ceci, cacao, mosto cotto, zucchero, uvetta o canditi e la pizza di San Martino con noci, cioccolato fondente, cannella, mosto cotto e chiodi di garofano, tutto da leccarsi i baffi.”

Chiudiamo con una panoramica sul patrimonio religioso che annovera una quantità di edifici religiosi molto ampia rispetto alla grandezza del paese, ognuno con delle sue specificità come si potrà leggere. Il terremoto del 1706 obbligò a nuove ricostruzioni, come quella della Chiesa Madre, intitolata così dal 1589 in onore di San Dionisio, ma dal 1594 il titolo passa ad una non ben identificata S. Maria della Porta. La zona della Chiesa Madre veniva denominata “Prece“, da un’etimologia popolare dal latino “preces”, preghiere o si può ricondurre il toponimo alla parola latina “praeceps, – ipitis“, che significa precipizio, pendio, data la sua posizione a cavallo di due vallate. Sullo stesso lato della Chiesa Madre venne costruita nel 1897 una fontana ornamentale con due statue in bronzo raffiguranti le divinità Nettuno ed Anfitrite e teste zoomorfe da cui sgorga l’acqua.

Tra gli edifici religiosi, meritano una visita la piccola chiesa extramuraria di San Nicola, già esistente nel 1112, e la chiesa della Madonna della Libera, da cui si dipartono le caratteristiche stradine in discesa (“rue”) che conducono alla vallata del fiume Gizio attraverso interessanti stratificazioni architettoniche, mentre le altre chiese di San Rocco, San Giovanni e San Antonio conservano poco della struttura originaria. La Parrocchia della Beata Vergine Maria e di San Dionisio che risale al XV secolo voluta dalla famiglia Cantelmo e ricostruita sopra una precedente chiesa de XIII secolo, troppo piccola per gli abitanti, ma divenne la parrocchiale molto tardi, poiché nel 1594 aveva tale titolo la chiesa di Santa Maria della Porta.

La Chiesa di San Rocco fu costruita in seguito alla peste che falcidiò la popolazione nel 1656 in onore di San Rocco, protettore degli appestati, onorato in quasi tutti i paesi che conobbero la terribile malattia con la costruzione di una chiesa a lui dedicata. L’iscrizione sulla facciata della chiesa, un edificio dalle forme assai semplici databile alla fine del XVII secolo, esprime il terrore degli abitanti per il terribile male che li aveva colpiti e l’invocazione al Santo perché li liberi. Il piccolo santuario della Chiesa della Madonna della Libera, fatto costruire nel 1680 e che conserva all’interno un altare in marmo sormontato da un dipinto raffigurante la Madonna della Libera, culto, particolarmente sentito dai cittadini della vicina Pratola Peligna, che richiamava in quel luogo ogni anno molti pellegrini pettoranesi, per i quali si pensò di farla costruire.

La Chiesa di San Nicola è invece una delle più antiche chiese pettoranesi, tipica chiesetta rurale, con interno molto semplice. Una prima attestazione si trova in un documento pontificio di Pasquale II del 1112, confermata dai successivi documenti papali del XII secolo. Secondo la tradizione locale sarebbe stata costruita sulle fondamenta di un tempio pagano, del quale però non esistono prove certe.

La Chiesa di San Giovanni che gode dell’antica attestazione presente nel documento di Lucio III del 1183 e in uno successivo di Clemente III del 1188. L’edificio attuale, semplice e modesto nelle proporzioni, non conserva nulla di quello originario che nei documenti del XVIII secolo risulta adibito a magazzino. Chiudiamo questa carrellata sulle 7 chiese del borgo con la Chiesa di Sant’Antonio, che secondo lo storico locale Pietro De Stephanis doveva essere inizialmente dedicata a S. Maria della Vittoria. Annesso all’edificio sacro era un ospedale per il ricovero dei poveri e dei pellegrini, chiamato xenodochio, che nel 1719 fu dichiarato luogo profano e quindi chiuso dal vescovo Francesco Onofrio, come ricorda un’iscrizione ancora visibile sulla porta dell’originaria sacrestia.

Foto by Abruzzomania

Fonti:

Pettorano sul Gizio – I Borghi più Belli d’Italia (borghipiubelliditalia.it)

Pettorano sul Gizio – Wikipedia

Borghi da vedere in Abruzzo: a Pettorano sul Gizio tra palazzi signorili, torrioni e fontane monumentali (luoghidavedere.it)

Castello Cantelmo (Pettorano sul Gizio) – Wikipedia

Comune di Pettorano sul Gizio

 

 

 

 

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 50 – Crognaleto (TE): il Santuario di Santa Maria della Tibia e la Valle delle Cento Cascate

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 50° Eccellenza, , quella del comune di Crognaleto in provincia di Teramo, con la Chiesa Santuario di Santa Maria della Tibia e la Valle delle Cento Cascate.  Per festeggiare il raggiungimento della 50° Eccellenza, andiamo in deroga al nostro regolamento e invece di indicare una sola eccellenza per questo piccolo comune, ne segnaliamo ben due. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 255, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

“C’è una piccola e graziosa chiesetta rupestre, in bella posizione isolata a 1187 di quota e collocata all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso Monti della Laga che sorge su di una rupe e che si raggiunge con breve e ripida salita dall’abitato di Crognaleto, è il Santuario diocesano della chiesa di Santa Maria della Tibia o Madonna della Tibia. La singolare e apparentemente macabra denominazione del santuario è attribuita dalla tradizione popolare per una grazia ricevuta quattro secoli fa, nel 1617 e nasce quindi come ex voto di un ricco commerciante proveniente da Amatrice, che, trovandosi a passare da quelle parti, cadde in un burrone, invocò la Vergine e avendo riportato solo la frattura di una tibia e quindi salva la vita, fece erigere il tempio, ma anche più prosaicamente deriverebbe dalla fatica necessaria per raggiungere il luogo.”

“La chiesa possiede una copertura a capanna e una facciata a coronamento orizzontale da cui si erge un campaniletto a vela con due fornici che accolgono altrettante campane di diversa grandezza. La più grande reca l’invocazione “Liberaci o Signore dal fulmine e dalla tempesta” e fu proprio un fulmine che nel 2005 distrusse il campanile che venne sistemato pochi mesi dopo dall’Ente Parco. Al di sopra dell’architrave c’è una finestra rotonda incorniciata in pietra, sopra la quale compare in un cartiglio su travertino l’anno di erezione della chiesa e la scritta in latino: “Inginocchiati e venera la Madonna, o viaggiatore, affinché guidi i tuoi passi fuori dai pericoli“.”

“Sulla sinistra si trova una piccola struttura adibita a ristoro dei pellegrini ed oggi riportata all’uso originario.  L’interno è ad unica navata e nella zona presbiterale si trova l’altare ligneo d’orato di fattura barocca con al centro la statua in legno della Madonna della Tibia, a cui vengono attribuiti poteri di protezione dalle calamità, guarigioni miracolose e poteri di protezione dalle calamità. Dal 1619, per concessione del Vescovo aprutino Giovanni Battista Visconti, confermata nel 2006 con Decreto della Penitenziaria Apostolica, viene accordata un’indulgenza di cento giorni all’anno per ogni visita alla chiesa nel giorno del 9 agosto. La devozione per la Madonna della Tibia, inoltre, rientra nel culto popolare mariano delle “Sette Madonne Sorelle“, molto diffuso nelle zone rurali. Il luogo è silenzioso e suggestivo, il panorama magnifico e riposante. La chiesa risulta sia stata edificata nel 1617, ma le sue fattezze fanno pensare a origini più antiche, infatti fonti storiche riportano che già nel XII secolo in quel luogo vi fosse una chiesetta conosciuta con il nome di “Tibbla” da cui potrebbe dunque derivare la curiosa denominazione tramandata fino a oggi.”

 

“Prima di descrivere la seconda eccellenza di Crognaleto, è bene da sapere che il piccolo paesino, di poco più di mille anime, è suddiviso in quattro borghi + uno (la borgata centrale). La parte più antica, ai piedi del paese, si chiama borgo “Combrello” (Colle Morello) in cui si ammirano le case costruite in arenaria, che rispecchiano la geologia del luogo, il paesaggio è mozzafiato e qui vi era un antico monastero di Gesuiti con la presenza del divino ancora tangibile testimoniato in quasi tutti gli architravi del 1600 delle case, con epigrafi in latino di monito di lode e motti, contenenti il monogramma gesuita con le lettere IHS e il più significativo, datato 1755, è posto sull’architrave di una porta in piazzetta “DESCENDANT IN INFERNUM VIVENTES, NE DESCENDANT MORIENTES” che significa “se si considerasse di più l’esistenza dell’inferno da vivi, non ci si andrebbe da morti”.
Nella parte più alta del paese c’è il borgo “Colle” che si caratterizza per i versetti e i motti incisi su porte e finestre degli edifici e che conserva tante case in pietra. Qui vi sono le sorgenti: l’acqua “d’ lu pirdir”“d’ li finticel”, oltre all’acqua “d’ la lagnett” che proprio per questa sue caratteristiche organolettiche è tra le migliori cinque acque in Italia, ottima soprattutto per il latte dei neonati. Il terzo è il borgo Mastresco dove sono stati trovati resti di insediamenti longobardi, come dimostrano proprio i balconi a forma del gafio longobardo e da racconti popolari si narra che il paese fu colpito da uno smottamento, scivolando verso il basso, solo il “Mastresco” rimase al suo posto, da ciò deriva il suo nome “rimasto ecco”La Villa è la borgata centrale con la grande piazza con la sua fontana, dove si trova la meravigliosa Chiesa di SS Pietro e Paolo che risale al XVII secolo, l’unica nella montagna teramana che conservò il patronato laico, ovvero il diritto dei residenti ad eleggere il proprio parroco.”

“Infine c’è il borgo di Cesacastina, il paese di terra, acqua e legno, con il suo nome che deriva dai termini “cesa: taglio” e “castina: castagni”.
adagiata ai piedi del Monte Gorzano che con i suoi 2.458 m. (la vetta più alta del massiccio dei monti della Laga), è circondata dal verde lussureggiante dei boschi, con la sua inconfondibile forma di croce che ad ogni estremità le corrisponde una borgata: Colle, Villa Mastresco e Combrello. Nel comprensorio di Cescacastina c’è un’altra perla di rara bellezza dello straordinario paesino di Crognaleto, un luogo incantevole divenuto famoso proprio per la sua posizione strategica, poiché in poco tempo è possibile raggiungere la Valle delle Cento Cascate, chiamata anche “Valle delle Cento Fonti, e questa località delle Cento Fonti forma un vero e proprio “anfiteatro”, di cui fanno parte anche le località “Pretaro” e “Le Iaccere”, e che scende fino a Cesacastina. Una vera e propria “Fabbrica dell’Acqua”, un angolo naturale particolarmente spettacolare e suggestivo del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, che prende il nome dalle decine di cascate e cascatelle (circa 100) con cui il torrente Fosso dell’Acero, che ispira questo toponimo, ricchissimo di acque, tra fine primavera e inizio estate, da vita a un vero e proprio grandissimo bacino idrografico che in primavera è solcato da numerosi corsi d’acqua. soprattutto nel periodo tardo-primaverile, e nella sua vorticosa discesa esplode in cascate e forma piccoli laghi anche ravvicinati tra loro, snodandosi in un percorso rocambolesco tra rigogliosi boschi di faggi secolari, alimentando ricchi pascoli lussureggianti e modellando a proprio piacimento i giganteschi costoni d’arenaria che riempiono la zona, tutto sotto l’austero sguardo delle vette del Corno Grande (che con i suoi 2.912 m. è la cima più alta degli Appennini) e del Pizzo di Intermesoli (2.635 m.).  Questo meraviglio luogo lungo il percorso del torrente, che porta ai 1.759 m. dell’Anfiteatro delle Cento Fonti (ed anche più in alto per escursionisti più esperti), si decora di stupendi fiori selvatici d’altura, tra cui diverse specie di orchidee ed in questa area, molto frequentata dai lupi, non è rara la presenza del Cervo, delle Volpi e della famosa Aquila reale che proprio in questi posti nidifica da anni.”

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“Questo angolo particolarmente spettacolare e suggestivo è senza dubbio uno dei più belli e scenografici di tutto il massiccio dei Monti della Laga, che offre panorami mozzafiato ed un ambiente naturale unico. In questo caso, perché non è nostra abitudine, facciamo uno strappo alla regola e diamo alcune informazioni per gli interessati ad andare a visitare questo meraviglioso luogo naturale con partenza proprio da Cesacastina. Per raggiungerlo è necessario seguire rigorosamente il sentiero senza allontanarsene, attraversando il corso del Fosso dell’Acero e dei ruscelli suoi affluenti solamente nei guadi segnalati, senza mettere piede per alcun motivo sui lastroni di pietra a lato del corso d’acqua.  La sua frequentazione richiede una attenzione particolare in quanto gli spettacolari scivoli di arenaria percorsi dal torrente e dai suoi affluenti ai lati del sentiero sono molto pericolosi, in quanto resi estremamente scivolosi dall’acqua, anche quando la ridotta portata estivane riduce il flusso ad un velo sottile.  Il tempo di percorrenza è di circa 2.15 ore, il dislivello è di 620 m, è presente un segnavia parzialmente segnato (bianco-rosso) ed il periodo consigliato per l’escursione va da maggio a ottobre e si svolge su un percorso che non presenta difficoltà tecniche né pericoli purché si resti sempre nel sentiero facile e molto evidente.

Fonti

Foto by Abruzzomania

Foto cascate by Leonardo Pellegrini

https://abruzzoturismo.it/it/la-valle-delle-cento-cascate

Santa Maria della Tibia – Crognaleto (TE) – MoVing Teramo

Viaggio in Abruzzo.it/09-P1040676+

Crognaleto – Wikipedia

http://www.gransassolagapark.it/iti_dettaglio.php?id_iti=1646

http://www.imontagnini.it/valle-delle-cento-cascate

http://abruzzomountainswild.com/event/escursione-alla-valle-delle-cento-cascate/

https://www.abruzzowild.com/escursioni-parchi-abruzzo/lincantata-valle-delle-cento-fonti/

https://www.countryhouseabruzzo.com/valle-delle-cento-cascate-207/

http://6amico.com/crognaleto/cesacastina-home/

 

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 49 – Pescocostanzo (AQ): il borgo storico più bello d’Abruzzo

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 49° Eccellenza, , quella del comune di Pescocostanzo in provincia di L’Aquila, il borgo storico più bello d’Abruzzo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 256, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

Nella regione degli Altipiani Maggiori d’Abruzzo, tra immensi e silenziosi pascoli, a 1.400 d’altezza si trova il magnifico borgo di Pescocostanzo. Centro di antica origine e luogo di intensa civiltà, vanta una favorevole attività culturale, testimoniata dall’eccezionale patrimonio di monumenti rinascimentali e barocchi che hanno avuto origine dalla straordinaria vicenda artistica che sviluppò soprattutto tra il 1440 e 1700.

Il borgo è compreso nel Parco Nazionale della Maiella, la montagna dai grandi canyon, pareti di roccia e fitti boschi nei valloni e tra Pescocostanzo e Cansano si estende, tra i 1290 e i 1420 m di quota, il Bosco di S. Antonio, una delle più belle faggete d’Abruzzo. Protetto come Riserva Naturale dal 1985, il bosco, oltre ai faggi, custodisce nei suoi 550 ettari numerose piante secolari, aceri, peri selvatici, tassi, cerri e ciliegi. All’inizio dell’estate vi fioriscono la genziana, la peonia e una delle orchidee selvatiche più rare d’Italia, la pipactis purpurea. In inverno, è possibile praticare lo sci di fondo tra i faggi e nel pianoro sottostante, mentre l’estate si presta per passeggiate e picnic, habitat di rari uccelli, quali il picchio, il pettirosso, il fringuello e, tra i rapaci, lo sparviero e la poiana.

Pescocostanzo, non è solo natura, infatti la tradizione artigiana è riuscita a rimanere viva e a salvare il patrimonio di esperienza, capacità tecnica, stile e qualità. La lavorazione del merletto a tombolo, quella della filigrana e del ferro battuto, rappresentano un punto di forza della sua tradizione. Pescocostanzo interpreta egregiamente l’antico ruolo di meta di turismo, arte e cultura, di soggiorno estivo ed invernale in uno straordinario ambiente naturalistico, offrendo una vacanza, estiva ed invernale, integrata in un comprensorio che rappresenta con le infrastrutture e le ricettività delle vicine cugine Rivisondoli e Roccaraso, l’offerta montana più completa della montagna abruzzese.

Le prime notizie riguardanti il borgo derivano da un documento del 1108, in cui si legge della cessione di Pescocostanzo da parte del monastero di San Pietro Avellana, dipendenza di Montecassino, a un signore laico, Oddone, membro del ramo dei conti di Valva e residente a Pettorano, il quale lasciò però ai monaci la Chiesa di S. Maria del Colle. Ai conti di Pettorano succedettero, a partire dalla seconda metà del ‘200, i nuovi feudatari legati ai sovrani angioini e dal 1325 al 1464 signori di Pescocostanzo furono i Cantelmo, ed è in questo periodo (tra il 1300 e 1440) che la storia del borgo cambia grazie all’influenza derivata dall’insediamento di un nucleo di artigiani lombardi dediti ad attività edili.

L’afflusso di questi maestri lombardi, richiamati da una forte committenza della borghesia locale, dall’ubicazione del paese, vicino alla “via degli Abruzzi“”, luogo di transito per scambi commerciali e culturali, attraverso la dorsale appenninica, fra il Nord e il sud d’Italia, e passante per l’altopiano delle Cinquemiglia e dalla disponibilità di cave di pietra, costituì una presenza incisiva, le cui testimonianze sono ravvisabili nel gergo dei muratori, nell’ onomastica di alcuni cittadini, nel rito del battesimo per immersione (tipicamente ambrosiano), nella presenza di un secondo protettore del paese, di parte lombarda, S. Felice e, per il tramite di donne lombarde, nella lavorazione del merletto a tombolo, anche se, nonostante l’ausilio di informazioni ricavabili da sculture, pitture e vasi antichi, che confermano l’impiego di attrezzi di lavoro non dissimili da quelli in uso ancora oggi, e le testimonianze di storici e poeti dell’epoca, è difficile risalire alla fase di passaggio dalla lavorazione con l’ago a quella con i fuselli (“tammarieje“), verosimili eredi di ibridi evolutisi nel tempo. Da una prima testimonianza storica sulla predilezione per i merletti da parte di Caterina dei Medici, nel 1547, si passa alla leggenda tramandata dallo studioso francese Lefebure, il quale attribuisce a Venezia la primogenitura di un intreccio di fili che sarebbe stato eseguito con l’ausilio di piombini pendenti da una rete di pescatori, carica, oltre che di pesci, di un’alga con meravigliose ramificazioni pietrificate: l’antenato della trina a tombolo. I pochi scritti sull’argomento lasciano immaginare che la tecnica del fusello sia nata prima del Rinascimento e abbia raggiunto valori di vertice a Venezia, in anticipo rispetto alle altre zone che l’hanno adottata. Notizie sul merletto a tombolo si hanno anche da un documento della famiglia d’Este di Ferrara, nel 1476, e dal riferimento a una “striscia a dodici fusi” per lenzuolo, in un contratto stipulato a Milano.

Si può supporre che, data l’intraprendenza delle classi locali evolute, l’artigianato del tombolo abbia tratto giovamento a Pescocostanzo dai contatti con i principali centri di diffusione dell’epoca come Milano, per il determinante apporto delle maestranze lombarde, a partire dal secolo XV (come sostiene il famoso storico pescolano dr. Gaetano Sabatini) e Venezia, oltre che per i continui contatti con l’Aquila e l’influenza esercitata lungo le coste abruzzesi, ma forse anche per il rapporto di amicizia tra Caterina dei Medici e Vittoria Colonna. il cui contributo all’emancipazione pescolana potrebbe avere scavalcato la funzione politica in più di un caso. Lucilla Less Arciello, altra pescolana d’elezione, sostiene questa seconda ipotesi in un suo pregevole lavoro intitolato “Cristalli di neve in una trina”. Poi c’è anche Genova, che alcuni studiosi citano come patria del tombolo. Qualunque sia l’ipotesi più attendibile sulle origini del tombolo, resta il fatto che la scuola pescolana diventa un fenomeno specifico, un’industria e un patrimonio per l’intera collettività locale, in cui la famiglia si trasforma in laboratorio artigiano: ogni bambina, appena possibile, viene iniziata al tombolo mediante l’esecuzione graduale della “sceda“(scheda), che fissa le nozioni basilari di questa arte; ogni giovanetta in età da marito possiede un corredo principesco di tovaglie. tovaglioli, fazzoletti, lenzuola, centri, pizzi, merletti, che assumono nomi dialettali diversi a seconda del punto o della complessità della figura in cui la fantasia ha sempre la sua parte.

Tenendo anche presente che il merletto a tombolo coinvolge altri artigiani, come il sarto per la preparazione del “cuscino” (il tombolo) e per l’imbottitura con erba falasca; il falegname per la realizzazione dei fuselli (“tammarieje“) in legno di noce, pero o ulivo stagionato, e dell’apposito cavalletto di supporto del tombolo; il disegnatore per l’elaborazione dei modelli, che richiedono una profonda conoscenza delle tecniche di lavorazione. Chiese e cappelle private, che le ricevono in dono e palazzi patrizi e case sono arredati con “pezzi” di valore. Durante l’ultima guerra, i tedeschi, che ne fecero bottino, manifestarono apertamente la loro meraviglia per le ricchezze e la varietà di quel patrimonio, nel quale figuravano, oltre a merletti in seta, esecuzioni con fili d’oro e d’argento. I merletti di Pescocostanzo, la cui compattezza di tessitura non ha uguali in un vasto circondario (Marche incluse) e i cui disegni sono a volte autentiche rarità o esclusiva di qualche trinaia o famiglia, fanno oggi splendida figura nelle esposizioni di industrie tessili italiane ed estere. Buona parte del merito va assegnato alla specializzazione e all’inventiva dei disegnatori locali. L’odierno merletto a macchina, per quanto ineccepibile nella esecuzione, non potrà mai competere con la morbidezza e il calore della lavorazione a mano se non per motivi di costo di produzione, così che, non trattandosi di lavoro su base industriale ogni pezzo è da considerare un “unicum”. Da qualche anno sono visitabili la Scuola del Merletto a Tombolo e il relativo museo realizzati dal Comune nel , in piazza Municipio.

Oltre al tombolo Pescocostanzo vanta anche l’arte del ferro battuto che ha origini molto antiche e una tradizione particolare. Esistente qui fin dal Medioevo, questa arte ricevette un decisivo apporto anch’essa dall’arrivo delle “compagnie” dei Mastri lombardi: “scalpellini, intagliatori, fabbri”, che affluirono in Abruzzo a partire dalla metà del’400 e si insediarono numerosi a Pescocostanzo, facendone il centro di artigianato artistico di più alto livello nella regione. Il vertice dell’arte del ferro battuto si raggiunse a Pescocostanzo alla fine del “600”, quando il fabbro pescolano Sante Di Rocco (1663-1705) realizzò, tra il 1699 e il 1705, il grandioso cancello che chiude l’accesso alla Cappella del Sacramento nella Basilica di Santa Maria del Colle: una delle opere più originali di questo genere che esista in Italia. Altri lavori in ferro di grande maestria sono presenti nella stessa chiesa (l’altare maggiore in ferro, opera del maestro Nicodemo Donatelli) e in arredi delle facciate degli edifici del centro abitato: testimonianza di quanto tale arte fu apprezzata nella comunità cittadina, in cui alcune famiglie l’hanno tramandata di padre in figlio fino ad oggi. Alla Bottega Donatelli va conferito il merito di aver fatto tesoro di questa eredità culturale e di averla custodita intatta e viva nel tempo.

Un’altra delle peculiarità di questo incredibile borgo è l’Artigianato orafo della filigrana (o filograna), un genere di lavorazione dell’oro e dell’argento basata sull’intreccio e sulla saldatura, nei punti di collegamento, di sottili fili di metallo ritorto, o lamine, sagomati o spiralizzati per la formazione di arabeschi e disegni in genere disposti simmetricamente. La sua evoluzione artigianale risale presumibilmente all’artigianato greco. Partendo dal 2000/2500 a.C., la filigrana trova una definitiva tecnica di lavorazione presso gli Etruschi, in modo particolare con decorazioni di lamine in forma di fiori o profili geometrici inseriti simmetricamente, spirali ecc, specie nell’oreficeria religiosa, greca ed etrusca in un primo tempo, romana, barbara e musulmana successivamente. Per quanto riguarda Pescocostanzo, vi sono da segnalare interessanti monili in argento con motivi filigranati, rinvenuti durante gli scavi archeologici in località Colle Riina, dopo l’apertura delle tre tombe longobarde rimaste intatte, i quali potrebbero offrire spunto a nuove ipotesi sull’importazione locale del tipo di lavorazione. Dopo una decadenza (o fase poco documentata) di circa due secoli, la filigrana ha recuperato popolarità verso il XVI – XVII secolo a Genova e a Venezia (e forse Milano), per esplodere in realizzazioni folcloristiche verso il XIX secolo presso le popolazioni dell’Europa centrale e in Spagna. Dall’Italia settentrionale essa è stata sicuramente esportata nel meridione, passando probabilmente orafo per Napoli o Sulmona prima di arrivare a Pescostanzo. Il primo riferimento all’attività orafa da parte del catasto generale del comune di Pescocostanzo risale all’anno 1748 e coincide col superamento di una fase critica dell’economia locale. Di orafi in epoche precedenti ogni notizia è vaga.

Caratteristica della filigrana tradizionale sono la lavorazione e la saldatura a mano, le quali, come si verifica per il tombolo eseguito con cuscino e fuselli anzichè a macchina, conferiscono al prodotto una morbidezza e un respiro inimitabili; tuttavia, non essendo facile distinguere a prima vista la fattura industriale (fusione) da quella artigiana (saldatura a mano) è opportuno informarsi sulla tecnica di lavorazione di un oggetto prima dell’acquisto. Rientrano nella tradizione anche figure o simboli ottenuti con placchette sagomate in oro assiemati per mezzo di spiraline o altri motivi filigranati. Un esempio tipico è la “presentosa“, spilla filigranata in oro, in fase di rilancio da parte dell’oreficeria locale nelle varie versioni fin qui elaborate. Nella tradizione rientrano ancora: “la cannatora“, collana girocollo consistente in un’infilata di “vacura” in lamina stampata a sbalzo (semplice oppure arricchita con grani in oro detti “prescine“), di cui esiste anche una versione moderna; le “cecquaje“, in genere orecchini e spille (di origine turca), lavorati a traforo (impreziositi a volte con pietre, cammei, corallo ecc.), riproducenti oggetti, figure o amuleti di ispirazione apotropaica; altre varie lavorazioni (ricorrendo anche alla cera persa), tra le quali gli “attacci” per sorreggere il filo di lana di pecora utilizzato per ricavare calze e maglie.

L’uso dell’oro nella lavorazione di monili destinati all’ abbigliamento e alla commemorazione è legato all’importanza che esso assume sin dall’antichità nel culto del suo potere magico o divino e della sua durevolezza. Nessuna meraviglia che il suo culto abbia trasmigrato da aztechi, cinesi, egizi e greci alla nostra penisola e, progressivamente, alle sperdute lande degli Altopiani, quasi sicuramente per il tramite dei maestri lombardi e che un centro evoluto come Pescocostanzo ne abbia fatto tesoro raggiungendo nel campo livelli di tutto riguardo. Vi sono nomi di orafi famosi nel passato, forse insuperabili, a cominciare dai Del Monaco, Falconio, Del Sole, Pitassi, ecc., a valle dei quali gli unici superstiti sono, verso gli inizi del XX secolo, le famiglie Domenicano e Tollis, depositarie di un patrimonio secolare di conoscenze.

Concludiamo questo straordinario excursus con le fiabe, la favolistica e le credenze popolari che costituiscono un’altra notevole componente del patrimonio culturale di Pescocostanzo. Da alcune fiabe e superstizioni raccolte in loco e riportate da Gennaro Finamore nel suo volume “Novelle popolari abruzzesi”, si ha conferma della chiara radice pescolana della loro elaborazione, poiché il tessuto narrativo, è talmente puntuale nei riferimenti al comprensorio comunale da eliminare ogni dubbio in proposito. Qualche perplessità potrebbe nascere per la Madonna delle Grazie, nominata nella prima fiaba, la quale sembra non avere alcunché in comune con la stessa, ubicata attualmente al Colle di S. Maria, come anche per il “Ponte di Pietra”, un rudere in quel di Pizzo di Coda, ancora transitabile prima della distruttiva bonifica del bacino del torrente “La Vera”, e per il “Colle delle Sante Celle”, toponimo non riportato sulle carte dell’IGM ma ancora oggi adottato come riferimento inconfondibile al distrutto “Monastero”, il quale sorgeva grosso modo in prossimità delle attuali masserie Macino. Per il resto, comunque, fatto piuttosto insolito nella favolistica, i richiami all’ambiente cui si riferisce ogni storia, sono a portata delle esperienze e conoscenze locali, senza però l’uso di re, regine, principi, principesse ed altri ingredienti di routine, fatta eccezione per qualche fuggevole drago o strega. I testi, di cui molti anziani di “Pesco” serbano memoria, sono ripresi fedelmente dal volume del Finamore sopra citato.

“Il monumento religioso più rappresentativo di Pescocostanzo è la Basilica di Santa Maria del Colle, ricostruita nel 1456  dopo un terremoto. L’ampia aula quadrata dalla caratteristica spaziale unica in Abruzzo, è a cinque navate. L’ingresso laterale, che risale al 1580,  con imponente scalinata e portale tardo romanico con lunetta affrescata, è oggi quello principale. Di notevole interesse gli splendidi soffitti lignei, quello dell’ottavo decennio del XVII secolo di Carlo Sabatini e i due intermedi del 1742 dorati e intagliati, che incorniciano tele di pregio, l’altare maggiore e la cancellata in ferro battuto sono una sintesi dell’operato delle maestranze abruzzesi nell’oreficeria del barocco, il Cappellone del Sacramento, opera di Santo di Rocco e Norberto Cicco, del 1699-1705, opere d’arte come la statua lignea medievale della Madonna del Colle, gli stucchi di Giambattista Gianni e la pala d’altare di Santa Caterina di Tanzio da Varallo, che mostra la Madonna dell’incendio sedato (1614). Accanto alla Basilica si trova la Chiesa di Santa Maria del Suffragio dei Morti del XVI secolo, con la facciata che riproduce una tipologia molto diffusa nella Majella, il portale seicentesco con timpano triangolare sorretto da colonne poste su alte basi, con la decorazione barocca di due teschi affiancati dal retro. All’interno un pregevole altare in noce e il soffitto a cassettoni lignei è del 1637, realizzato dai pescolani Bernardino d’Alessandro e Falconio Falconi.”

“Di notevole pregio in ambito civile è il Palazzo Fanzago del XVII secolo, ricavato dall’ex convento di Santa Scolastica, progetto di Cosimo Fanzago che mostra i portali in pietra a tutto sesto, aperti nel corso del XIX secolo, per ospitare botteghe al pian terreno; le nicchie con le paraste ribattute da volute a mensole inginocchiate costituiscono un episodio chiave dell’opera di Fanzago, presentando analogie con l’altare della chiesa del Gesù e Maria e da visitare anche Palazzo Grilli edificazione del XVII secolo, Palazzo del Municipio del XVIII secolo che sull’architrave del portale ha scolpito riprodotto nel 1935, il motto SUI DOMINA, in ricordo della liberazione dal feudalesimo del paese da Ferdinando IV di Borbone, Palazzo Cocco dotato di eleganti finestre settecentesche, Palazzo Ricciardelli che deve il suo nome al patriota Nicola Ricciardelli e infine chiudiamo la rassegna delle bellezze architettoniche del borgo con le fontane di Pescocostanzo, la Fontana di Piazza Municipio del XVII secolo in ferro e pietra, con al centro uno stelo in ghisa contornato da tre putti seduti di scuola pescolana, dalle cui bocche esce l’acqua. Nel marchio impresso si legge di un restauro del Novecento, dove è stata aggiunta sulla cima una conca abruzzese sorretta da una figura umana, e la Fontana Maggiore del XV secolo, con quattro cannule che gettano l’acqua e un rilievo del Ciclo della Vita con figure umane e vegetali.”

Fonti:

Pescocostanzo – I Borghi più Belli d’Italia (borghipiubelliditalia.it)

Pescocostanzo (AQ), il borgo più bello d’Abruzzo! – YouTube

Visit Pescocostanzo | Home (visit-pescocostanzo.it)

Pesconline.it – Il Portale di Pescocostanzo – Pescocostanzo Hotel, B&B e Ristorante su Pesconline.it – Pescocostanzo è On Line

Pescocostanzo – Wikipedia

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 48 – Guardiagrele (CH): il Duomo di Santa Maria Maggiore

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 48° Eccellenza, , quella del comune di Guardiagrele in provincia di Chieti, il suo splendido Duomo di Santa Maria Maggiore. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 257, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

Ai piedi delle Maiella, sul versante orientale, si trova Guardiagrele, un borgo dalla storia molto antica e ricca di avvenimenti, in cui molto prima della nascita di Cristo, le tribù italiche dalle quali sarebbe poi nata la città di Chieti, stabilirono importanti villaggi, conquistati poi dai romani e sviluppatisi in epoca medievale e rinascimentale. Nonostante i secoli trascorsi, del suo passato il paese conserva numerose testimonianze tra le quali un vero capolavoro dell’architettura sacra: la chiesa di Santa Maria Maggiore.  La collegiata di Santa Maria Maggiore  oggi duomo di Guardiagrele, è uno scrigno che custodisce opere di grande importanza nell’elaborazione del linguaggio rinascimentale che  costituisce il più rilevante e articolato complesso monumentale cittadino ed è il risultato di ben otto secoli di trasformazioni architettoniche ed artistiche, che presenta una struttura complessa, frutto del susseguirsi delle fasi costruttive nei secoli e dei restauri del XII-XIII secolo e del XVIII secolo ed è caratterizzata da un’elegante facciata in pietra della Majella in cui è incorporata una massiccia torre campanaria, (che procurò alla città la definizione di “città di pietra” da Gabriele D’Annunzio ne “Il trionfo della morte”), dominata da un portale che ben rappresenta il gotico abruzzese, con le sue ricche lavorazioni a fasci di colonne e capitelli con motivi floreali e un archivolto a cordoni concentrici fortemente strombato.

La tradizione locale fa risalire l’edificazione della chiesa al 430 d.C., sui resti di un antico tempio pagano, mentre gli studi attuali attribuiscono l’origine a una chiesa cimiteriale del XIII secolo, la primitiva Santa Maria che venne edificata, tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., all’esterno della prima cinta muraria della Guardia collocata fuori dalle mura del castrum. Lo storico locale Francesco Paolo Ranieri parla appunto di due chiese ben distinte nel XIII secolo: Santa Maria e l’attigua Chiesa della Natività di Gesù, che verrà fusa nella nuova fabbrica dopo i danni del sisma del 1706. La chiesa subisce nel 1700 una totale trasformazione che ha restituito l’attuale impianto costituito da tre edifici: l’avancorpo, con il campanile e l’atrio, l’antica aula principale oggi cripta, la cappella della Madonna del Riparo, oggi chiesa di San Rocco e dell’edificio originale è sopravvissuto solo il prospetto sotto il portico meridionale, seppur con diverse aggiunte, come il secondo portale. Inserito nel 1578, quest’ultimo fu probabilmente ricavato da un blocco che in origine doveva essere un altare ed è caratterizzato da ricche decorazioni a treccia, grottesche e motivi floreali. Il portico fu prolungato nel 1882 oltre via dei Cavalieri, con l’affissione di un lastrone di pietra atto a coprire gli stemmi, affissi sul muro, delle famiglie guardiesi più importanti.

A seguito dell’espansione urbanistica della città, promossa dalla famiglia de Palearia (all’epoca conti di Manoppello), l’edificio perse la sua iniziale funzione, per acquisire il ruolo di fulcro della vita pubblica cittadina. Nella prima metà del Trecento la chiesa acquisì un discreto patrimonio fondiario e si dotò di un imponente corpus di corali miniati per le funzioni liturgiche, costituito da un Graduale in tre volumi e un Antifonario in quattro volumi. Nel 1365, per volere del nuovo conte di Manoppello, Napoleone Orsini, venne elevata al rango di chiesa collegiata e poi ampliata mediante la realizzazione di due porticati sui due prospetti laterali dell’edificio, con la cappella di San Giovanni Battista, eretta pochi anni dopo, che divenne cappella funeraria della famiglia Orsini. Agli inizi del Quattrocento venne introdotta la denominazione di Santa Maria Maggiore e, a seguito della cacciata degli Orsini, la nascente Universitas cittadina, che proprio nell’edificio riuniva i suoi parlamenti, promosse l’edificazione dell’imponente torre campanaria, inserita all’interno della facciata duecentesca. Sulla sommità della torre sono osservabili tracce che rimandano a una cella campanaria ottagonale, abbattuta dagli eventi sismici susseguitisi nel tempo, in particolare il terremoto del 1706, che implicò la ricostruzione di una torre campanaria quadrata, in stile diverso dal gotico della facciata, distrutta nel 1943.

Nei due secoli successivi allo spostamento del camposanto, la chiesa venne abbellita e arricchita con opere d’arte. Nel XIV secolo furono effettuate le principali modifiche all’edificio quali la costruzione della torre campanaria e il porticato settentrionale e nel secolo successivo vennero aggiunti o rinnovati altri importanti elementi architettonici e di arredo come il portale principale a sesto acuto, le monofore della facciata, gli affreschi sotto i porticati. Intorno agli anni ’30 del secolo, maestranze teutoniche, forse giunte al seguito di Gualterius de Alemania e ancora attive in Abruzzo, realizzarono lo splendido portale gotico di facciata, impreziosito nella lunetta con ante in legno datate 1686 dal gruppo scultoreo dell’Incoronazione della Vergine, opera del maggior artista abruzzese, scultore e orafo del Quattrocento Nicola da Guardiagrele, esposto ora nel museo del duomo che fu inaugurato nel 1987, artista che nel 1431, realizzò anche una preziosa croce processionale di San Giovanni in Laterano in argento sbalzato e smalti, purtroppo trafugata nel 1979 insieme ai corali miniati trecenteschi e recuperata solo in parte ed esposta nel museo del Duomo.

Tra i vari oggetti d’arte si segnalano i frammenti della croce processionale d’argento del celebre del Quattrocento Nicola da Guardiagrele, firmata e datata 1431. La croce fu rubata anni fa, smembrata e immessa sul mercato antiquario clandestino per essere venduta a pezzi, di cui solo alcuni sono stati recuperati. Agli inizi del Settecento, dovendo ampliare la chiesa ma facendo fronte anche alla necessità di non ostruire via dei Cavalieri, l’interno del Duomo è rialzato di un piano da cui si accede mediante un arco alla cappella di San Rocco, per permettere l’accesso dalla medesima strada dei Cavalieri, si decise di ricorrere alla sopraelevazione dell’intera aula prolungandola fino alla chiesa della Madonna del Riparo, situata sul lato opposto della strada che divenne un locale di sgombero chiuso. Il soffitto a capriate lignee è stato ripristinato negli anni ’50, quando la chiesa era stata danneggiata dai bombardamenti della guerra. Il soffitto, dopo il terremoto del 1706, era stato realizzato a cassettoni con i lacunari ornati da fioroni. I muri sono scanditi da paraste alternate ad altari in stucco, dentro cui sono presenti statue o dipinti. Sul lato sinistro particolarmente rilevante sono la Deposizione, tela seicentesca del pittore ferrarese Giuseppe Lamberti, e il pulpito in legno di noce su cui sono incise scene della Vita di Gesù. Sul versante opposto è presente un paliotto medievale ricomposto con elementi in pietra eterogenei, dentro il quale è posta una composizione a formelle, sovrastato da una tela di fine Cinquecento che rappresenta l’Assunzione di Maria. Nella sagrestia sono conservati una Crocifissione di Francesco Maria De Benedictis, le Anime purganti di Nicola Ranieri e quattro episodi della Vita di Cristo, tutte opere di artisti guardiesi e risalenti al XIX e XX secolo.

Benché l’interno si mostri, a navata unica, prevalentemente barocco, con il soffitto a capriate, rifatto dopo il 1944, l’esterno è il punto di interesse della cattedrale, con la facciata a torre centrale, decorata da portale con una copia del gruppo dell’Annunciazione, di Nicola Gallucci, un finestrone centrale, e un piccolo oculo. Sulla sinistra e la destra si trovano due portici, uno con il gigantesco affresco rinascimentale del 1473 un affresco di Andrea De Litio di San Cristoforo pellegrino (unica opera firmata e datata dall’artista), che mostra il santo nell’atto di attraversare un corso d’acqua gremito di pesci sorreggendo sulle spalle il bambino Gesù, che a sua volta innalza un globo sul quale sono scritte le lettere A A E (iniziali dei tre continenti conosciuti allora); l’altro portico è più interessante, ha un orologio, sovrastato dalla riproduzione dello stemma civico di Guardiagrele, e all’interno un dipinto ad affresco della Madonna del Latte. Probabilmente alla prima fase costruttiva fanno riferimento le due date ‘1133’ e ‘1150’ incise sulla facciata, riportate negli scritti dallo storico settecentesco Anton Ludovico Antinori, ma che sono sparite. Certo è che nel 1256 il cimitero venne spostato nelle vicinanze della chiesetta di San Siro, l’attuale chiesa di san Francesco d’Assisi, poiché il fulcro della vita cittadina e delle sue principali attività si stava spostando a Santa Maria Maggiore.

La nuova chiesa di Santa Maria Maggiore è stata restaurata nel XX secolo dopo i danni dei bombardamenti alleati del 1943-44, con la sostituzione della copertura in favore di un tetto a capriate, mentre per la ricostruzione del campanile bisognerà attendere il 2009. Infatti il Duomo nonostante le ruberie subite nei secoli, conserva uno straordinario patrimonio di arredi sacri, vero e proprio tesoro della chiesa, conservati, all’interno della cripta ottenuta dalla sua ristrutturazione settecentesca, grazie all’impegno del parroco don Domenico Grossi, allo scopo di salvaguardare, valorizzare e rendere maggiormente fruibile un patrimonio che prima si trovava sparso per le chiese marsicane ed era spesso oggetto di furto. Il Museo che si articola in tre sale: nella prima, la sala dei paramenti sacri, sono esposti un piviale in taffetas del Settecento, pianete ricamate con fili d’oro e d’argento risalenti al XVIII e al XIX secolo, una tonacella d’inizio Novecento con ricami in stile Liberty e sette sculture del XVIII secolo: 4 busti-reliquiari d’influenza napoletana, un reliquario del Santissimo Salvatore, una statua di San Nicola Greco e l’Immacolata concezione che schiaccia il demonio, rappresentato sotto forma di drago. La seconda sala è dedicata a uno dei protagonisti del Rinascimento abruzzese, Nicola da Guardiagrele e la sua opera suddivisa in tre periodi stilistici: il primo in cui spunti personali e innovativi si mescolano con la tradizione gotica, il secondo periodo coincidente con il viaggio fiorentino e un sostanziale cambio del linguaggio, influenzato dallo stile del Ghiberti, il terzo, in cui il raffinato ed elegante umanesimo di estrazione fiorentina è messo in crisi da una tensione espressionistica, influenzato sia da Raffaello, sia dal Gotico tedesco. Al centro della sala troneggia la Madonna dell’Aiuto, statua lignea dipinta e dorata risalente al XV secolo, tra le teche contenenti due pregevoli corali miniati trecenteschi, rubati anch’essi insieme alla croce e solo di recente tornati a far parte del patrimonio artistico cittadino. La terza sala, denominata Arte del XIV secolo, conserva un prezioso cofanetto del Trecento decorato con scene di corte e animali fantastici, la croce reliquiario di scuola umbra proveniente dalla chiesa di San Nicola Greco e una raccolta di ostensori, calici, turiboli e pissidi in argento di manifattura napoletana. Completa la collezione un braccio reliquario di scuola sulmonese, destinata ad ospitare le reliquie di San Nicola Greco, patrono guardiese.

Sotto l’orologio un’edicola accoglie una statua di San Giovanni Battista, riconducibile alla seconda metà del Quattrocento. La chiesa di San Rocco, anticamente intitolata a Sant’Antonio abate e dopo il terremoto del 1706, dedicata alla Madonna del Riparo e poi nel ‘900 a san Rocco, è parte integrante della collegiata di Santa Maria Maggiore, risaliva al XIII secolo ed era collegata alla cattedrale mediante un portico di via Cavalieri e all’ex cappella della Madonna del Riparo. Testimonianze dell’antichità della chiesa sono date anche da due altari laterali ad arco ogivale, con decorazioni in gotico radiale teutonico, altri frammenti di altare sono conservati nel museo civico. Restaurata profondamente a seguito degli interventi di sopraelevazione settecenteschi di Santa Maria Maggiore, quando la chiesa attigua fu sconsacrata e adibita a biblioteca comunale. Si articola in tre navate ed è arricchita da decorazioni barocche in stucco policromo. L’arredo è composto da un confessionale e un pulpito a cipolla dell’ebanista orsognese Modesto Salvini e alcuni dipinti di Nicola Ranieri, fra cui il medaglione/affresco della Madonna del Latte di un ignoto artista quattrocentesco, in fondo alla navata centrale che si trova un’edicola interamente decorata sotto una campata ricoperta da ricche decorazioni barocche in stucco.

Il campanile, parte sommitale della facciata centrale, terminava a torre, inizialmente ottagonale, forse un tamburo con una cupola a cuspide, seguendo le torri rinascimentali delle cattedrali di Chieti, Teramo e Atei, seguendo le ipotesi dello storico Lucio Taraborrelli. A causa dei danni del terremoto della Majella del 1706, il campanile fu rifatto a torre quadrata in pietra, visibile in alcune foto storiche. Nell’occupazione francese del 25 febbraio 1799 furono rotte le campane. Negli anni 30 fu demolito per pericoli statici dopo il terremoto della Majella del 1933. Nel 1943 un bombardamento aereo danneggiò la chiesa, il portico settentrionale, nel 1944 i tedeschi trafugarono le campane per trasformarle in pezzi di artiglieria. Le campane vennero rifuse, tuttavia il castello di ferro, sul tetto scoperto fu montato solo nel 2009. Inizialmente fu montato nei primi anni ’90, per ospitare una sola campana, benché il concerto fosse stato già fuso, in fotografie della seconda metà degli anni ’90, esisteva un concerto simile a quello attuale, ma poi per difetti di realizzazione del “castello”, le campane sono state parcheggiate sino al 2009 sopra il portico Nord. Il concerto è uno dei più grandi d’Abruzzo e possiede 9 campane a slancio che sono state fuse nel 1999 ed elettrificate nel 2009 dalla Fonderia Capanni di Castelnovo ne’ Monti (RE), che sostituiscono le vecchie campane ora conservate nella suddetta fonderia, poste a ottagono: 4 maggiori laterali, fiancheggiate da 4 piccole, e infine il campanone collocato al centro superiormente. Un altro piccolo campanile si trova all’inizio del portico di destra, costituito da una mezza torretta rettangolare in pietra, sopra cui si trova una campana che non viene suonata; rimasuglio dell’antica chiesa della Natività di Gesù.

Come detto, si trovano incastonati nella parete, lo stemma della città e gli emblemi delle maggiori famiglie gentilizie di Guardiagrele, qui murati nel 1884 per non disperderli, che valorizzano gli stemmi nobiliari, con una lapide creata appositamente nel 1881 che si trova sul fianco sinistro del Duomo, con il compito di conservare tutti gli stemmi nobiliari delle più influenti famiglie guardiesi vissute dal Medioevo al XIX secolo, stemmi rimossi solitamente dalle architravi dei portali dei palazzi, alcuni dei quali scomparsi che offrono una preziosa testimonianza per tracciare la storia della vita locale dal XII sino al tardo Ottocento. Vediamoli in rapida successione: gli Ugni nobili guardiesi che avevano i feudi nella parte nord-occidentale della montagna, da Caporosso a Caprafico e Palombaro, Caprafico e signori dell’omonima contrada. Avevano la loro residenza fortificata presso il castello di Caprafico, i Palearia e il castello di Pagliara situato sopra Isola del Gran Sasso d’Italia (TE). La famiglia fu in rapporti col Regno di Napoli, nel Catalogus baronum (1150-1168) risulta di che Oderisio di Collepietro possedeva il feudo di Palearia, nel 1248 Innocenzo III confermò a Gualtiero di Palearia, conte di Manoppello, il possesso dei beni avuti da Federico II. I Palearia ebbero rapporti con Guardiagrele e i Caprafico, e dopo la venuta di Napoleone Orsini, andarono in decadenza. Gli Orsini, con capostipite della famiglia tal Orso di Bobone nel XII secolo. Nel 1276 Tommasa figlia di Gualtieri di Palearia sposò Subiaco conte di Chieti, e la loro figlia Maria andò in moglie a Napoleone I Orsini, che entrò nei possedimenti di Manoppello, San Valentino, Guardiagrele, Casoli e Pagliaria. Gli Scioli, con lo stemma recante il nome di Giulio Scioli, capostipite del casata. I Carrara e di questa famiglia si ricorda Ardizzione, luogotenente del capitano Braccio da Montone, al servizio di Giovanna II d’Angiò; nel 1423 fu inviato in Abruzzo insieme a Niccolò Piccinino per preparare l’assedio de L’Aquila. I De Sorte e il loro stemma dal tronco d’albero con due grandi pomi cadenti dai rami. Non si sa molto della famiglia, sennonché il cognome ha dato lustro al personaggio teatrale Antonio De Sorte detto “Frappiglia”, maschera comica della commedia dell’arte abruzzese. I Farina, originari di Casalincontrada, uniti con i D’Alena, lo stemma è scudo d’azzurro al giglio di giardino al naturale, fiorito di sei pezzi, tre per parte, nodrito sulla vetta più alta fra le tre di un colle al naturale verdeggiante; detto giglio accostato di sei stelle a sei raggi d’oro ordinate in palo tre e tre nei fianchi dello scudo. I Vallereggia, originari di contrada Valle Regia dove avevano il castello, possiedono lo stemma con il cimiero di un cavaliere in cima, e lo scudo blasonato con nella parte superiore due corone di fiori, e in basso una solo. Gli Stella, originari di Villa Maiella-Colle Barone, si conserva della loro presenza il torrione posto su vis Occidentale, coevo di Torre Adriana. Lo scudo è tripartito orizzontalmente in cima da tre gigli, e negli altri riquadri da due, e da una stella. Gli Accursio, provenienti da un castello presso L’Aquila, lo stemma è inquartato nel 1 e nel 4 d’argento all’aquila spiegata di nero; nel 2 e nel 3 d’azzurro al leone d’oro rivoltato. I Passarotti che risultano al catasto onciario del 1753, dove si nomina tale Apostolico Passarottio Ferdinando, sposato con Anna Carmela De Lauro. Gli Elisii che apparirono nel catasto onciario del 1609 come “Lisii”, poi nel XVIII cambiato nell’attuale (1753). Lo stemma mostra un cipresso ornato in cima da tre stelle, e in basso da due boccioli che nascono dal terreno ha la cornice molto ben elaborata da motivi barocchi, che in basso ritraggono il volto di un uomo, con la barba che si fonde nei riccioli con la stessa cornice.

Fonti:

Foto by Abruzzomania

https://it.wikipedia.org/wiki/Collegiata_di_Santa_Maria_Maggiore_(Guardiagrele)

https://it.wikipedia.org/wiki/Guardiagrele

https://www.inabruzzo.it/guardiagrele-cattedrale-di-santa-maria-maggiore.html

https://ilcantooscuro.wordpress.com/2020/03/01/il-duomo-di-guardiagrele/

http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?id=oai%3Aculturaitalia.it:museiditalia-mus_9156

Eccellenza d’Abruzzo n. 47 – Pietracamela (TE): il Borgo scavato nella roccia

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 47° Eccellenza, , quella del comune di Pietracamela in provincia di Teramo e il suo splendido Borgo scavato nella roccia. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 258, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

“Pietracamela, abbarbicato ed isolato sull’altura che domina il vasto panorama sulla valle del Rio Arno, prevalentemente costruito e restaurato in pietra locale, è un vero e proprio paese di montagna che si sviluppa in salita, isolato e circondato solo da monti e boschi, con le case tutte vicine e in pietra, con le finestre di legno, i balconi-fienili, i vicoli lastricati, le vecchie fontane e con le strade che non sono altro che strette salite o scalinate nelle quali passano appena due persone affiancate, con bandite macchine, motorini e addirittura inagibili alle bici.”

“Il piccolo borgo medioevale, dal nome originario Petra che deriva dalle case costruite su enormi macigni portati a valle dallo scioglimento dei ghiacciai di Campo Pericoli, fu definito da Monsignor Pensa un nido di Aquile. Pietracamela è arroccata sulle pendici del Corno Piccolo del massiccio del Gran Sasso nell’area protetta del Parco Nazionale omonimo, con il Corno Grande e le sue cime aguzze e le pareti verticali, i ghiacciai, tutte le meraviglie della montagna e i Monti della Laga, con foreste ricche di acque che scendono copiose a valle, in cui vivono il camoscio e dove nel 1991 fu istituita la Riserva naturale del Corno Grande di Pietracamela di 2.000 ettari che comprende il Corno Grande, il Ghiacciaio del Calderone, la Valle del Rio Arno, la Valle del Mavone, Campo Pericoli, il Pizzo d’Intermesoli ed il Bosco della Giuncheria, istituita al fine di reintegrare con un programma di ripopolamento proprio il camoscio d’Abruzzo da tempo estinto (che ne è il simbolo), l’orso bruno marsicano e il lupo appenninico, all’interno di uno scenario d’incomparabile bellezza, che si può godere solo da questo meraviglioso borgo.”

“Le vere ricchezze di questo borgo sono pertanto la natura, il silenzio, la pace ed un paesaggio mozzafiato, e così si presenta in tutta la sua maestosa bellezza al riparo dei roccioni calcarei che delimitano in basso a 1450 m di altitudine anche la località di Prati di Tivo, sede dell’omonima stazione sciistica, sita tra i boschi di faggio dell’Aschiero e delle Mandorle, che si eleva lungo le pendici del Corno Piccolo e il Corno Grande  e del Rio Arno, la più famosa stazione invernale del Gran Sasso d’Italia (1450-2000 m.), con impianti di risalita e dotata di buone attrezzature alberghiere.”

“In questo incantevole scenario, dal borgo partono bellissimi sentieri per passeggiate e trekking sui sentieri storici, mountain bike, ascensioni in quota, alpinismo e roccia (famosa la Palestra di roccia degli Aquilotti). Alcune ipotesi sulle origini del borgo attribuiscono la sua fondazione a popolazioni abruzzesi che vi si stabilirono tra i monti, intorno al XII secolo, considerandoli luoghi sicuri per sottrarsi alle invasioni nemiche, mentre altre ritengono che i primi residenti siano stati gruppi di pastori o di cardatori di lana giunti dalla Puglia, probabilmente di origine brindisina.”

“Gli scorci che vi si intravedono stupiscono per la bellezza e nel guardarli si percepisce la fatica degli antichi pretaroli che praticavano la pastorizia, l’agricoltura e la lavorazione della lana. Gli storici raccontano che verso la fine di settembre, terminate le semine, gli abitanti di Pietracamela si recavano in Maremma, in Umbria, nelle Marche e in Emilia Romagna per la cardatura della lana di cui erano veri specialisti. Le donne invece trascorrevano i lunghi e freddi inverni a filare la lana e a realizzare la tessitura dei carfagni, stoffe di lana che assumevano colori variegati, per mezzo della lavorazione con erbe e cortecce di alberi, utilizzati per proteggere dalle intemperie. Competenza delle donne era anche la tessitura della “tela bianca”, da cui si ricavavano i paponi, le calzature fatte di corda e di pezza che venivano usate dagli alpinisti locali, vista la loro resistenza. Purtroppo lo spopolamento ha causato l’abbandono di queste meravigliose attività artigianali un tempo legate alla pastorizia.”

Foto by webtiscali

“Quando si arriva in paese, il benvenuto è dato se si alza lo sguardo sullo sperone silvestre, dalla preta (che nel 1878 fu di gran lunga ridimensionata nella parte sporgente nel vuoto e che nel 1935 fu fatta sostenere per opera pubblica da un inutile pilastro), dalla chiesa matrice di S. Leucio, costruita nel 1780 e dalla Casa Torre anticamente utilizzata come torre di avvistamento. Il paesaggio che lo circonda è caratterizzato dalla presenza di pareti scoscese, ricoperte da folta e rigogliosa vegetazione costituita prevalentemente da secolari boschi di faggio dell’Aschiero.”

“Tra le strette viuzze, vicoli, stradine a gradinata, punteggiate da piccoli balconi e da terrazzine-belvedere, si trovano numerosi architravi fregiati con stemmi gentilizi e numerose epigrafi che contribuiscono alla narrazione della storia del borgo di , complete o frammentarie, presenti all’interno del paese. Oltre alle magnificenze naturalistiche, il borgo incastonato nella roccia ha una notevole preziosità architettonica testimoniata, procedendo dalla porta verso l’interno del paese, detta la Terra, in cui si possono ammirare le innumerevoli viuzze fiancheggiate da case erette con una tecnica costruttiva istintiva ma razionale e perfettamente rispondenti alle esigenze di coloro che ancora oggi vi abitano. Poi si ammirano il vecchio comune, edifici elevati, con ciottoli e pietre unite da legante, tra il XV e XVI secolo, che conservano peculiari caratteri di autenticità sui diversi monumenti storici di notevole importanza, come antiche iscrizioni spagnole, tracce lasciate nel corso dei secoli, che tramandano e testimoniano ancora oggi la memoria di date, vicende, eventi e personaggi che ebbero nella realtà del borgo, nei diversi periodi, un particolare rilievo.”

“Troviamo l’antico sacro edificio di San Giovanni Battista, del 1432 circondato da case i cui portali recano date dal 1471 al 1616, con l’epigrafe della chiave dell’arco, incisa in caratteri gotici, la più antica che si trova nel borgo che tramanda che la chiesa fu eretta nel mese di giugno dell’Anno del Signore 1432. Poi c’è la chiesa di San Rocco, del 1530, piccolo edificio sacro che si eleva al di fuori dell’incasato del borgo, dedicata al santo protettore degli appestati e dei piagati, eretta durante l’epidemia di peste che colpì il territorio tra il 1528 e il 1529. Oltre all’anno, sul soprassoglio, si trovano scolpiti anche il trigramma bernardiniano IHS e un versetto del Pange Lingua di Sant’Agostino che così recita: «SOA. FIDES. SVFFICIT», e ancora date scritte sulle architravi dei portali, altari lignei e l’acquasantiera cinquecentesca della chiesa parrocchiale di San Leucio, patrono e santo protettore di Pietracamela (lo storico teramano Niccola Palma la ricorda nominata nell’anno 1324 come la chiesa di «S. Leutii de Petra in Valle Siciliani»).  Lungo il caratteristico percorso si possono ammirare il lavatoio pubblico, i resti della chiesa della Madonna e del vecchio mulino comunale ad acqua (tra i ruderi sono ancora ben conservate le due bocche di uscita delle acque), costruito nel XVII secolo a circa 400 metri dal borgo, funzionante con la forza motrice delle acque del Rio Arno.”

“Non è finita, poi ammiriamo Casa Signoretti o Casa de Li Signuritte, con le due finestre bifore con colonnine tortili, sormontate da un architrave sul quale posto in rilievo il probabile simbolo dei cardatori di lana dimora privata ubicata al centro del paese la cui costruzione è databile tra la seconda metà del XIV secolo e l’inizio del XV, con i bassorilievi di una testa e di un paio di forbici (o forse cesoie da tosatore) con le lame aperte che potrebbero rappresentare il simbolo della Corporazione dei lanai, incisi sull’architrave della prima bifora e la Casa Torre, antico edificio che nei tempi passati, fu utilizzato dagli abitanti del paese come torre di avvistamento.”

“Oltre il borgo, c’è il Monte Calvario, rilievo roccioso che sovrasta il corso del Rio della Porta, alla cui sommità sono state disposte tre grandi croci, abbracciato a 1000 m al riparo dei roccioni che delimitano in basso i Prati retrivi (Prati di Tivo) e sopra il paese, tra rocce e fienili, dove resiste un ambiente montanaro molto singolare, più volte ritratto dal pittore Guido Montauti.”

“Pietracamela non è solo un incredibile palcoscenico naturale, ma il tempo ha lasciato in eredità anche, come i ravioli che sono forse il piatto più originale e nei ristoranti del territorio si gustano tutte le altre specialità, come i timballi, l’agnello alla brace, lo spezzatino di capra, lo squisito cacio marcetto e altri formaggi di pecora, i sorcetti (sorta di maccheroncini conditi con formaggio pecorino), le famose “scripelle ‘mbusse”, certi salumi e la pecora alla callara.”

Foto di Antica Locanda, Pietracamela – Tripadvisor

Fonti:

Foto by Abruzzomania ad eccezione di quelle segnalate

http://borghipiubelliditalia.it/project/pietracamela/#1480496816106-48a7f6ef-54ab

https://it.wikipedia.org/wiki/Pietracamela

http://www.comune.pietracamela.te.it/

https://www.stradadeiparchi.it/pietracamela-il-borgo-costruito-sulla-roccia/

 

 

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 46 – Navelli (AQ): il Borgo Medievale delle 14 Chiese

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 46° Eccellenza, , quella del comune di Navelli in provincia di L’Aquila e il suo antico Borgo Medievale delle 14 Chiese. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 259, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

Il borgo di Navelli, uno dei castelli più antichi della diocesi Valvense, fu fondato dagli abitanti di vari villaggi, a causa del fenomeno dell’incastellamento e si sviluppò in epoca medievale (VIII-X sec.) per motivi strategici e difensivi, per riunire tutti i villaggi in un unico castello sito su di un colle, una fortezza con torre (trasformata in epoca rinascimentale in campanile della chiesa parrocchiale) dove potersi rifugiare in caso di pericolo, costruendo intorno ad essa le rispettive case. Da evidenziare alcune delle chiesette medievali che appartenevano ai citati villaggi, come la chiesa di S.Maria in Cerulis che anticamente faceva parte del “Vicus Incerulae” e al tempo dei Vestini era un tempio dedicato ad Ercole Giovio.

Navelli è storicamente un centro agricolo e pastorale conosciuto nel mondo per la produzione dello zafferano dell’Aquila DOP. L’”oro rosso” qui cresce sano e purissimo ma, anche se il più prezioso, non è l’unico prodotto che caratterizza il borgo, infatti sono da citare anche l’olio d’oliva, uno dei pochi extravergini della zona, le mandorle e i ceci, piccoli e saporiti, ma decisamente una delle cose più belle da vedere è lo storico borgo medievale con il suo centro antico che si aggrappa alla collina dove si erge in cime il palazzo baronale Santucci, ricavato dal castello predetto. La porzione est del borgo, attorno l’ex chiesa di San Giuseppe, è purtroppo in rovina per abbandono, anche se dopo il terremoto del 2009 si sono fatti progetti per il recupero, in parte andati in porto con il restauro delle chiese e di antiche case. Le case si caratterizzano per la muratura in pietra locale, attaccate le une alle altre, sfruttando l’orografia e le antiche mura medievali che sono state inglobate insieme alle porte, di cui rimangono i toponimi; caratteristici i supportici e gli angiporti, il tutto cinto da mura e rivolto ad oriente.

L’unica chiesa del centro era intitolata a S. Pelino, protettore del borgo, ma in seguito fu costruita la chiesa di San Sebastiano, sita al di sotto della fortezza, divenuto patrono in epoca rinascimentale, che godeva del titolo di arcipresbiterato (di cui godeva anche l’antica chiesa di S.Maria in Cerulis) . Le nuove abitazioni furono costruite all’altezza di una delle ville che concorsero alla fondazione del paese, la “Villa di Piceggia grande”, e in epoca rinascimentale si ampliarono fino alla “Villa di Piceggia piccola”. Ancora oggi il paese è suddiviso in due parti: una medievale chiamata “Spiagge grandi”, da Piceggia grande, e l’altra rinascimentale chiamata “Spiagge piccole”, da Piceggia piccola. Dopo il forte terremoto del 1456  il paese fu in parte ricostruito e sulle mura di cinta, spostate più a valle, nel seicento furono inglobati diversi palazzetti signorili che, restaurati dopo il terremoto del 1703, presero le tipiche caratteristiche del barocco, come il palazzo Onofri con annessa cappella gentilizia e una loggia, nella zona delle spiagge grandi al quale era annessa una delle cinque porte di accesso al paese “Porta Villotta” detta anche “Porta Sud”.

Secondo una tradizione, priva di un’attendibile documentazione, il nome del paese deriverebbe da Nava che vuol dire conca riflettendo la posizione geografica del paese, ma ancor più remota è la leggenda popolare secondo la quale il paese originariamente portava il nome di “Novelli“, poichè nato dall’unione di Nove ville: Villa del Plano, Villa della Piceggia (o Piaggia) Grande, Villa della Piceggia (o Piaggia) Piccola, Villa di S.Maria In Cerulis, Villa di Sant’Angelo, Villa di Turri, Villa dei Pagani, Villa del Colle e Villa di Santa Lucia. Secondo la leggenda gli abitanti dopo aver partecipato alle crociate in Terra Santa, per ricordarle, decisero di trasformare il nome del paese da Novelli a Navelli e di introdurre uno stemma civico per far rimanere duratura l’impresa nel tempo. Tale arma da principio era rappresentata da una “nave flottante sul mare, con un sinistrocherio di carnagione, uscente dalla prua della nave, impugnante l’asta di una croce latina movente dalla nave” con il motto “In Medio Mari Portum Teneo”  e in seguito fu rappresentata da  “una nave flottante sul mare, sostenente cinque banderuole, caricate di una croce in campo d’oro”  il tutto cimato da una corona Ducale con il motto “Navellorum Merito Coronata Fideltas”.  Questa leggenda è attendibile solo in parte perché nel 1092 in una Bolla del monastero di S.Benedetto in Perillis il paese è menzionato come “Navellum“, e non “Novellum”, e in quel periodo le crociate ancora non erano iniziate. Nel 1184 nel Catalogum Baronum viene citato Navellum, come castello di due Militi, che può far pensare che le prime abitazioni sul colle furono fatte erigere da due militi crociati. Infine negli antichi scritti rinvenuti le ville non risultano essere mai stati nove ma sei.

Altra eccellenza del borgo è la chiesa di Santa Maria in Cerulis edificata sulla zoccolatura del tempio romano dedicato ad Ercole, protettore dei pastori, che fa comprendere il ruolo primario della pastorizia nell’economia delle genti del territorio. Segni della dominazione longobarda si hanno nei nomi di alcuni luoghi, come ad esempio Civitaretenga, degenerazione di Civita di Ardenga. La conversione al cattolicesimo dei Longobardi, nel 680, permise la diffusione sul territorio delle Comunità monastiche, con l’Abruzzo cinto da monasteri che segnarono la storia dell’Italia Centrale e nel VI-VII sec. e la costruzione di chiese di campagna che ricoprirono un ruolo fondamentale per l’affermazione del potere monastico sul territorio e del potere ecclesiastico, essendo punto di contatto diretto con il popolo. Chiesa che con la sua diffusione capillare era diventata l’industria più importante del tempo, e con l’accentramento del potere economico nelle sue mani, ciò comportò la sottrazione di autorità ai signori e principi locali ai quali era demandato l’onere di garantire sicurezza e così attorno alle chiese di campagna si formarono piccoli insediamenti, dove si trasferirono le famiglie di contadini che prestavano la loro opera nei campi.

Il borgo di Navelli  inizia così a prendere forma nell’XI sec. con l’espansione di Piceggia Grande che si collocava sul sito oggi occupato dal Palazzo Baronale e dalla chiesa di San Sebastiano, scelta di questa villa non casuale perché era garantito l’approvvigionamento idrico, circostanza basilare in un territorio povero di acqua superficiale. Alla fondazione di Navelli concorsero determinate ville, ognuna delle quali aveva una chiesa al suo interno, i cui nomi si deducono dai Chronicon delle comunità monastiche del territorio, e, ad esempio, in quello Volturnense sono riportate: San Savino, attorno alla quale si è sviluppato Villa del Plano; San Pelino, appartenente a Villa di Piceggia (Piaggia) Grande; Santa Maria in Cerulis, arcipretale nella Villa omonima; San Angelo, Prepositura nella Villa omonima; Santa Maria di Lapide Vico, probabile chiesa di Santa Maria di Piedevico. L’abitato era cinto di mura sulle quali si aprivano due porte, la Porta di San Pelino che chiudeva la viabilità principale di accesso al borgo dalla piana, ed una porta ad occidente che doveva chiudere un percorso proveniente da Civitaretenga.

Il borgo tra l’XI e il XV sec. aveva un impianto urbano caratterizzato da case a schiera con la viabilità a pettine. I corpi di fabbrica, caratterizzati da una cellula base di matrice quasi quadrata delle dimensioni di 4/4,5 metri, erano a uno o due livelli con l’unità immobiliare ad un solo livello che poteva avere diverse funzioni, da bottega, stalla o abitazione. Altre importanti opere sono state la costruzione della chiesa di San Sebastiano sulle vestigia di San Pelino, infine sul tracciato murario si aprivano tre ingressi al borgo: Porta Santa Maria ad occidente, Porta Macello a sud-est e Porta Villotta, annessa al palazzo Onofri, ad oriente.

Numerose le chiese che si fa fatica anche ad elencare: iniziamo con la Chiesa della Madonna del Rosario, edificata nel settecento di forme barocche, la Chiesa cimiteriale di Santa Maria in Cerulis, in aperta campagna, simbolo dei tratturi abruzzesi, per la particolarità e la solennità dell’architettura. risalente al XI secolo sorta sulle rovine di un antico tempio dedicato a Hercules Iovius Cerere, in cui nel medioevo nei suoi sotterranei venivano sepolti i morti del paese e dove sono state trovate 45 mummie medievali in ottimo stato di conservazione; la Chiesa cimiteriale del Suffragio di epoca rinascimentale-barocco, l’Oratorio della confraternita del Gonfalon di epoca barocca, la Chiesa Parrocchiale di San Sebastiano del 1631 in stile tardo-barocco, la Chiesa della Madonna del Campo, dall’aspetto rinascimentale rurale esterno e interno neoclassico, la Chiesa di San Girolamo, piccolo lazzaretto per gli ammalati e ricovero di pellegrini che passavano lungo il Tratturo Magno, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie del XV secolo in stile rinascimentale da non confondere con la chiesetta della Madonna delle Grazie in territorio di Civitaretenga. Tra le Chiese di Civitaretenga segnaliamo la Chiesa di Sant’Egidio del XII secolo, antica chiesa parrocchiale prima che fosse costruita l’attuale parrocchia di San Salvatore, la Chiesa di Sant’Antonio di Padova: in campagna, la Chiesa madre di San Salvatore del XII secolo, la Chiesa della Madonna dell’Arco in campagna verso la fonte vecchia, con gli altri altari dedicati alla Natività di Cristo e all’Annunziata e infine la Chiesa di Santa Maria delle Grazie del XII secolo.

In questo straordinario borgo non potevano mancare innumerevoli architetture civili come il Palazzo Baronale Santucci fortificato del 1632, residenza dei feudatari di Navelli, il Palazzo Francesconi già Cappa già Mancini, palazzo seicentesco con annessa cappella gentilizia (San Pasquale), il Palazzo Piccioli già Marchi già Mancini di impianto seicentesco con annessa cappella gentilizia (San Gennaro e Rosario), il Palazzo Onofri del 1498 situato nella parte medievale del paese “Spiagge Grandi” ed annesso ad una delle cinque porte di accesso al paese, “Porta Villotta” detta anche “Porta Sud”, Villa Francesconi con cinque ingressi con cancelli in ferro battuto edificata nel 1752 il più grande e pregevole palazzo con pregevoli dipinti, lo scalone monumentale, la cappella gentilizia, un pregevole pozzo in pietra, un parco di quattro ettari, pregevoli decorazioni della facciata tra cui il cornicione monumentale e la finestra principale dove sono scolpiti i nomi di Gesù, Giuseppe e Maria. Per le architetture militari si annoverano Porta San Pelino o Porta Nord, la più caratteristica delle porte di Navelli, medievale, con arco gotico ogivale; Porta Villotta o Porta Est, arco gotico attaccato alle mura; Porta Macello o Porta Sud; Porta Santa Maria o Porta Ovest e infine la Necropoli di Navelli del II-I secolo a.C., sita presso l’area cimiteriale di Santa Maria in Cerulis,

Molto interessante e da visitare il borgo di Civitaretenga, anticamente chiamata “Civitas Ardingae”, sita dove sorgeva l’antica città vestina di Cincilia distrutta dal console Giunio Bruto Sceva verso l’anno 430 di Roma, risorto intorno al IX secolo assieme a quello di Navelli, sopra un colle per evitare saccheggi di popolazioni barbare come i Saraceni e Ungheri, che per la sua posizione impervia, ha conservato il suo aspetto originale,  fiorendo nell’arte della marcatura grazie agli ebrei, che ebbero concessioni dai reali di Napoli Ladislao di Durazzo e Giovanna II di Napoli, beneficiando della coltivazione dello zafferano di Navelli. La struttura del paese è dominata dal borgo fortificato, chiamato castello, per differenziarlo dal sobborgo del Ghetto, che sorge attorno la chiesa madre. Nel centro storico riveste particolare interesse l’attuale Via Guidea.

Anticamente (dal 1200 D.C. fino al 1500) questa strada portava il nome di via Giudea a testimonianza della presenza di un ghetto ebraico, percorso coperto, realizzato con un’articolata sequenza di archi di sostegno delle abitazioni sovrastanti, che porta nel cuore dell’antico quartiere ebraico, fino alla Piazza Giudea, quello che dai civitaresi viene chiamato “ju buch” (il buco) o ru busc“per la sua conformazione angusta e stretta, con un’architettura originale e molto articolata. Il ghetto era piccolo e raccolto intorno alla Sinagoga, ancora oggi è un luogo intriso di fascino.

Il borgo ha un’interessante presenza ebraica già dal XII secolo nel quartiere della parrocchia di San Salvatore, con la sinagoga presso il palazzo Perelli, che la ingloba come cappella palatina, modificando simboli cabalistici con il Trigramma di Cristo, con il Ghetto ebraico in cui si trova il nucleo più storico distinto in due zone, quella del castello e l’altra del cosiddetto ghetto, caratterizzato da brevi e stretti vicoletti, risalente al periodo tra il XII ed il XV secolo, di cui molte tracce sono andate perse nei tentativi successivi di eliminarne la presenza, coprendo gli stipiti contraddistinti da simboli giudaici con simboli cristiani, in particolare con il simbolo di S. Bernardino da Siena, il cristogramma IHS.

Navelli, un borgo dotato di una bellezza rara e unica, incredibile e affascinante, paese dell’”oro rosso”, con una storia millenaria e straordinaria, forse il più ricco di chiese nell’intero panorama abruzzese e non solo. Appello agli abruzzesi, spero pochi, che non lo hanno ancora conosciuto, non indugiate perché deve essere scoperto e visitato immediatamente … prima che sia troppo tardi 😊.

Fonti:

Foto: by Abruzzomania

https://it.wikipedia.org/wiki/Navelli

https://comune.navelli.aq.it/

www.regione.abruzzo.it

http://www.mondimedievali.net/Castelli/Abruzzo/laquila/navelli.htm

www.storianavelli.it

Eccellenza d’Abruzzo n. 45 – Lama dei Peligni (CH): le Grotte del Cavallone

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 45° Eccellenza, una delle più ammirevoli della regione, quella del comune di Lama dei Peligni in provincia di Chieti, le Grotte del Cavallone. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 260, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

“Lama dei Peligni è un piccolo borgo montano che sorge alle falde della Majella orientale. Ai suoi piedi scorre nell’omonima valle il fiume Aventino e nel suo territorio, nella Valle di Taranta, nel cuore del Parco nazionale della Majella, ricadono le famose Grotte del Cavallone, poste a quota 1475 metri s.l.m., situate al confine tra Lama dei PeligniTaranta Peligna che, oltre all’interesse speleologico e alle sue bellezze, hanno il primato di essere la grotta naturale di interesse turistico visitabile più alta d’Europa e perché il poeta Gabriele D’Annunzio vi ha ambientato la tragedia ”La figlia di Iorio”.”

“Il percorso nel loro interno si snoda nelle viscere della montagna per oltre un chilometro attraverso ambienti di straordinaria bellezza in grado di suscitare forti emozioni. E’ possibile ammirare un grande numero di stalattiti e stalagmiti ed intuire la potenza delle acque che ha prodotto la cavità. Le visite si effettuano con una guida, in gruppi ed hanno la durata di circa un’ora. La temperatura al suo interno è di 10° C ed è costante durante tutto l’anno e l’umidità raggiunge in alcuni punti il 90%. Muniti di scarpe chiuse e di una giacca impermeabile, la visita in Grotta dura circa un’ora. ”

“Le grotte del Cavallone sono note sin dal XVII secolo come testimoniato da alcune incisioni presenti sul “sasso dei nomi antichi”. La prima esplorazione documentata risale al 1704, ma bisognerà attendere il 1893 per l’avvio dei lavori finalizzati alla valorizzazione turistica della grotta. In quegli anni furono realizzate un’ardita rampa di accesso scavata nella roccia, scale in legno all’interno (ancora visibili) e organizzato un servizio guide. Le grotte si raggiungevano a piedi o con i muli e la discesa a volte veniva effettuata con le tregge (grandi slitte utilizzate per il trasporto della legna). Tra gli illustri visitatori si ricorda il pittore Francesco Paolo Michetti, che ispirandosi alla sala d’ingresso realizzò la scenografia del secondo atto della tragedia dannunziana “La figlia di Iorio”. Da allora fu chiamata anche Grotta della Figlia di Iorio, con le sue sale ed alcune concrezioni che portano ancora oggi i nomi dei personaggi della famosa tragedia. Durante l’ultima guerra mondiale fu utilizzata come rifugio dalle popolazioni locali.”

“Per godersi pienamente l’esperienza è necessario soffermarsi anche sul percorso e non solo sulla sua meta, che consente di vivere sensazioni che permettono di rendere questo viaggio unico e la funivia è parte fondamentale della scoperta delle Grotte del Cavallone e del mondo montano ad alta quota. Suggestivo è il lento avvicinamento all’entrata della Grotta. I tempi ed i sensi iniziano a dilatarsi lungo il tragitto e man mano che ci si avvicina alla montagna se ne iniziano ad assaporare i particolari. La stazione di partenza della funivia, in Località Pian di Valle, lungo la S.S. Frentana, è a 750 metri s.l.m ed arriva a quota 1300 s.l.m., viaggiando lentamente lungo il Vallone di Taranta Peligna. Il percorso durerà circa venti minuti e poi altri dieci a piedi per raggiungere l’entrata della Grotta. La funivia è una “cestovia“. Ne rimangono attive solo quaranta e nel giro di pochi anni scompariranno. Le cestovie son dei veri e propri cestini che, in coppia, ti permettono di attraversare il Vallone di Taranta e di fare ingresso, con riverente lentezza, ai piedi della salita alla Grotta, scavata nella roccia nel 1894.

Si resterà affascinati dalla potenza della Montagna Madre, dalla grandezza e della libertà dei rapaci che la sorvolano, dai colori del cielo e della forma delle nuvole. La cestovia fu costruita nel 1978, dopo un lungo dibattito sul suo impatto ambientale e per favorire lo sviluppo turistico della Grotta del Cavallone. Prima della sua costruzione si accompagnavano i visitatori lungo il vallone di Taranta grazie alla costante presenza dei muli ed all’uso della “treggia“, una speciale slitta che veniva usata principalmente per il trasporto di legname e che veniva portata a spalla fino al limite di vegetazione della grotta. Veniva usata poi per la discesa, in due, lungo la pista ghiaiosa che funge da linea di massima pendenza della Valle di Taranta fino alla Strada Frentana.”

“Scesi dalla cestovia ecco l’entrata della Grotta come un occhio di cavallo incastonato nella parete rocciosa dalle forme che ricordano il suo muso. Da questo richiamo sembra derivi il nome Cavallone, mentre altri sostengono che Cavallone derivi dal nome della Valle, un tempo chiamata Valle Cavallo. Il percorso visitabile è di 1360 metri restando esterrefatti vedendo “prosciutti appesi, la Torre di Pisa, la Foresta Incantata, il paesaggio lunare” e la forza e la magia delle creazioni alle quali l’acqua dona vita nuova. Per accedere al suggestivo atrio di entrata della Grotta ci sono circa 300 scalini, scavati nella roccia da abili scalpellini (prima del 1894 vi si accedeva tramite delle corde stese dall’alto!). Dal Belvedere, posto di fronte all’ingresso di questo suggestivo monumento sotterraneo nel cuore della Maiella, si può indirizzare lo sguardo lontano, alla valle, alle vette, ai giochi delle rocce e dei colori. La Grotta del Cavallone, di origine carsica, si sviluppa per più di due chilometri; si divide in una galleria principale e tre diramazioni secondarie.

“Inoltrandosi nella cavità, a pochi passi dall’atrio, ci si trova all’ingresso della Galleria della Devastazione, dove il caos del tempo ha il sopravvento sull’armonia delle forme e dell’immaginazione. Proseguendo per la strada principale si giunge alla Sala di Aligi, dove si ha la prima consapevolezza del lavoro costante dell’acqua, sintomo di creazione e di vita, una vera e propria cascata di pietra! È l’acqua la vera protagonista del viaggio all’interno di questo meraviglioso ed unico mondo sotterraneo, regista di forme, creatrice di pozzi, gallerie, laghetti sotterranei; acqua madre di stalattiti e stalagmiti. Alla fine della Sala di Aligi incontriamo le Sentinelle, formazioni di stalattiti e stalagmiti che ci introducono nella Galleria principale. Da qui è tutto un susseguirsi di formazioni calcaree e di giochi di fantasia sulle forme createsi dove troviamo la Sala di Budda, la Sala degli Elefanti, le Teste d’Indiani, la Sala delle Statue, la Sala dei Prosciutti e la Sala delle Campane, per poi scoprire pozzi, laghi e giochi di forme. Si presume che i primi a scoprire l’esistenza della Grotta del Cavallone siano stati i pastori che numerosi popolavano la Majella per gran parte dell’anno con i propri greggi. Purtroppo però non esistono testimonianze certe.”

“E’ datata 1666 la prima traccia di un’esplorazione, incisa nel Sasso dei nomi antichi, insieme ad altre iscrizioni, all’ingresso della Grotta. Nel 1704 il medico Jacinto de Simonibus e D.A. Franceschelli effettuarono una più accurata esplorazione delle Grotte del Cavallone e del Bove. Ne siamo a conoscenza grazie ai vari riferimenti degli esploratori successivi perché nel manoscritto originario e nel rilievo su pergamena se ne sono perse le tracce. Nel 1705 il fisico napoletano Felice Stocchetti la cita in una sua opera a stampa, come Francesco Cicconi (1759). Ma non fu la stampa il mezzo con il quale si diffuse la notizia dell’esistenza di questa meravigliosa grotta, bensì la tradizione orale della gente del posto ed i cantastorie. Si arriva al 1831 quando il naturalista napoletano Michele Tenore tentò l’esplorazione della Grotta ma fu scoraggiato dalla mancanza di scale per superare i tratti più ardui, ma visitò invece la Grotta del Bove, di più facile accesso. Nel 1865, per caso, un pastore tarantolese, Matteo Ciavarra, per recuperare una capra inerpicata sui monti, si ritrovò di fronte all’ingresso della grotta e questo fu l’inizio di una nuova era esplorativa che permise di riportare in auge l’interesse per la cavità. Il Dr. Egidio Rinaldi, successivamente, si spinse ad un’esplorazione più approfondita della cavità spingendosi sicuramente oltre l’angusta parete in discesa della Bolgia Dantesca. Nel 1893 il cancelliere di Pretura Alessandro De Lucia, grazie all’utilizzo di corde e scale ed all’aiuto di un coraggioso contadino e di due minatori, riuscì a scendere lungo il Pozzo senza fine e successivamente insieme a 46 cittadini di Lama dei Peligni e Taranta Peligna, diede vita alla Società delle Grotte del Cavallone e del Bove, con l’intento di valorizzarne il loro valore turistico.

La Società realizzò una scalinata di entrata nella cavità incisa nella roccia, inserì delle scale di legno per facilitare i passaggi più difficili al suo interno e organizzò un servizio di guide. Nel 1907 lo speleologo Vittorio Bertarelli effettuò una minuziosa ricognizione della cavità e ne stimò le dimensioni e al 1912 risale la prima ricerca esplorativa con intenti scientifici con il geologo e spelelologo De Gasperi che effettuò le prime ricerche geomorfologiche e produsse la reale, per dimensioni, planimetria della grotta. Nel 1913, l’archeologo Ugo Rellini effettuò diverse ricerche paleontologiche all’interno della cavità, fino ad arrivare al 1948 con le ricerche ferme, sia a causa delle due Guerre che di dispute interne alla Società delle Grotte. Da qui si susseguirono numerose campagne speleologiche e di studio geomorfologico della cavità. Nel 1949, nel corso del Congresso nazionale di Speleologia di Chieti, la Grotta del Cavallone fu fatta visitare  e ciò indusse a richiamare l’interesse anche di studiosi stranieri tra le quali la spedizione dell’Università di Oxford con F. H. Witehead, Michael Holland, David Russel e il giovane Mario Di Fabrizio scopritori della Galleria dei Laghi. Tra il 1950 e 1960 ci fu un nuovo impulso alle esplorazioni grazie al CAI Bolognese e CAI Chietino e tra il 1961 e 1962 il gruppo speleologico URRI di Roma rileva la cavità complementare e supera brillantemente alcuni ardui passaggi (lo pseudo sifone, dove si arrestarono le esplorazioni precedenti, un sifone ed il pozzo senza fine), inoltre, insieme a Domenico Di Marco, diede vita alla toponomastica ufficiale della Grotta. La storia delle ricerche finisce nel 1987 con Giovanni Piazza e Luigi Centobene, dello Speloclub di Chieti, che scoprirono la Galleria dei Laghi, superando il sifone fino ad allora inviolato.”

“Le Grotte del Cavallone e del Bove furono utilizzate come rifugio dagli abitanti di Taranta Peligna durante la II Guerra mondiale. Nell’autunno del 1943 il fronte bellico si era immobilizzato lungo la linea Gustav. Le truppe tedesche, per rappresaglia, si insinuarono nei piccoli paesini dell’area minando sistematicamente l’abitato. Taranta Peligna fu completamente distrutta e molte famiglie furono costrette a cercar rifugio e nascondiglio altrove, con molti che si rifugiarono nelle grotte e vi rimasero per oltre un mese (novembre 1943–febbraio 1944). I racconti degli anziani rifugiati ci permettono di riportare in luce qualche particolare in più: la grotta, avendo una temperatura costante di 10 gradi, fu preziosa per sopravvivere alle temperature rigide dell’inverno imminente in alta quota; gli sfollati portarono con loro alcuni animali, in maggioranza pecore, con i quali si cibarono; le donne ed i bambini si rifugiarono all’interno, nella Sala di Aligi, che ancora porta i segni di quel lungo mese, mentre gli uomini, in maggioranza, si rifugiarono nella Grotta del Bove, a pochi passi da quella del Cavallone”

“Grazie alla costituzione della Società delle Grotte del Cavallone e del Bue nel 1894, iniziò la valorizzazione della cavità sul piano turistico. Si cercò di facilitarne l’accesso, che precedentemente avveniva con delle corde stese dall’alto, scavando un sentiero di accesso dal basso nella roccia; in seguito, all’interno della Grotta, vennero costruite delle scale di legno, oggi ancora visibili, che permise di superare i punti di camminamento più difficili. Si organizzò anche un servizio di guide. La prima guida riconosciuta fu Giuseppe Rinaldi che con grande passione accompagnò i visitatori e gli esploratori fino al 1938. Si istituì un servizio di cavalcature e tregge per facilitare la salita da Pian di Valle lungo la Valle di Taranta fino all’accesso della Grotta.”

Le guide

“Il 1923 segnò l’inizio di un periodo di disinteresse ed abbandono del processo in crescita di valorizzazione turistica. La Società delle Grotte del Cavallone e del Bue, al termine del suo mandato, si sciolse ed iniziarono forti contrasti proprietari tra il Comune di Taranta Peligna e quello di Lama dei Peligni. Nel 1937, il Comitato Regionale per il Turismo e l’Istituto Nazionale di Speleologia produssero vari documenti per suggerire la strada verso la valorizzazione turistica della grotta. Per circa due anni, iniziarono, così, a rimettersi in moto delle gite organizzate con servizi di autobus per incentivare le visite. Purtroppo la Guerra e la difficoltà di salita alla grotta misero un repentino punto allo sviluppo crescente.”

“Le varie esplorazioni del dopoguerra e le nuove scoperte scientifiche riportarono in auge l’interesse per questa meraviglia della natura. Iniziarono ad essere presentati dei progetti per facilitare la salita lungo la Valle di Taranta, sia stradali, sia con impianti a fune. Molte furono le controversie ed i dibattiti sull’impatto ambientale e paesaggistico sino ad arrivare, nel 1978, alla costruzione di una comoda funivia (come recita il depliant del tempo) che conduce dalla Località Pian di Valle, fino a quota 1388 s.l.m. percorrendo il lungo Vallone. La costruzione della funivia fu fondamentale per la crescita turistica della Grotta del Cavallone. Oggi, i Comuni di Taranta Peligna e Lama dei Peligni collaborano assiduamente per la valorizzazione e la conservazione della grotta e l’accoglienza turistica. Sempre più esteso è diventato il periodo in cui la grotta è visitabile (oltre i 100 giorni all’anno) e molti dei giovani di Taranta e Lama contribuiscono al funzionamento della funivia, alla gestione delle visite guidate in grotta ed all’erogazione del servizio di ristorazione.”

Noi di Abruzzomania abbiamo attribuito la Grotta del Cavallone a Lama dei Peligni, pur consapevoli del fatto che è sita anche sul territorio del comune di Taranta Peligna su cui ricadono gli impianti di risalita e l’ingresso, ma la nostra missione ci obbliga ad attribuire un’eccellenza ad ognuno dei 305 comuni d’Abruzzo e quindi abbiamo optato per assegnare quella delle grotte a Lama dei Peligni semplicemente perché queste ricadono fisicamente nel suo territorio comunale, ma state pur certi che quando parleremo dell’eccellenza del comune di Taranta Peligna, sicuramente non dimenticheremo di citare l’appartenenza di questo comune alla gestione e diciamo così alla “comproprietà” di questa meraviglia della natura.

Fonti:

Foto by Abruzzomania

http://www.comunelamadeipeligni.it/turismo/

http://www.grottedelcavallone.it/

Eccellenza d’Abruzzo n. 44 – Città Sant’Angelo (PE): antico Borgo dell’Angelo

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 44° Eccellenza, una delle più ammirevoli della regione, quella del comune di Città Sant’Angelo, in provincia di Pescara, il Borgo dell’Angelo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 261, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

Posta sul suo belvedere naturale di dolci colline Città Sant’Angelo è un lascito dei Longobardi da cui viene il culto dell’angelo. Le sue origini sono incerte ed hanno costituito sempre motivo di discussione storica: probabilmente i primi a creare un insediamento sul colle furono i Vestini, ma il primo atto ufficiale reperito, dove si parla del comune, menziona di una concessione da parte dell’imperatore Ludovico II che accorda un privilegio al Monastero di Casauria sul luogo chiamato “CIVITATE S. ANGELI” dove si trovavano un castello ed un porto ed è datato 13 ottobre 875. I numerosi ritrovamenti archeologici, decisamente più antichi, tra la foce del Piomba e quella del Saline, e la presenza di piccoli aggregati urbani in corrispondenza della località oggi denominata Marina di Città Sant’Angelo fanno risalire le origini della città al periodo romano, quando Angulum (gli abitanti conservano ancora il nome di “angolani”) viene nominata da Plinio il Vecchio nella sua descrizione delle terre vestine nel libro Naturalis Historia (libro II 12.106), ma non è da escludere l’ipotesi di qualche storico che la Angulum citata fosse invece la vicina Spoltore.

È da ipotizzare che la prima isola abitativa, edificata tra il secolo VIII ed il IX nella parte più alta del colle (l’attuale rione Casale) sia stata consolidata ad opera di una colonia longobarda, che realizzò una efficace fortificazione del luogo, munendolo di una cinta muraria ed emancipandolo così, da semplice borgo (Casale) che doveva essere, a Castrum (configurazione urbanistica perimetrata da mura difensive), come risulta da successivi rimandi documentali. Ad avvalorare una simile supposizione intervengono l’esame delle superstiti cortine murarie che ancora cingono una parte del vecchio convento di Sant’Agostino, la devozione all’Arcangelo Michele, protettore ab antiquo della nostra città, culto introdotto e diffuso nell’Italia meridionale proprio dai Longobardi, infine la persistenza del toponimo Grottone che ancor oggi denomina la via d’accesso al Casale ed induce la congettura sulla probabile esistenza in loco di una grotta ed è noto come i Longobardi, pur convertiti al cristianesimo, per un residuo dei loro rituali pagani, connettessero la devozione per l’Arcangelo Guerriero alle grotte naturali ed alle acque sorgive. Si può quindi affermare che il culto dell’angelo, che sarebbe stato portato dai Longobardi, ha dato nome al luogo.

Possiamo affermare che l’origine dell’odierna Città Sant’Angelo si fa risalire al periodo compreso tra il 1240 e il 1300, come appare dall’impianto medievale del tessuto urbano, e come si evidenzia dalle fonti che riferiscono della distruzione di Civita Sancti Angeli nel 1239 per mano di Boemondo Pissono, il “giustiziere d’Abruzzo”. Punita dall’imperatore Federico II di Svevia per essersi alleata con la nemica chiesa, ottiene dallo stesso, l’anno dopo, di essere ricostruita, cosa che avviene nel nucleo fortificato a semicerchio, delimitato dalle attuali strade Castello e Minerva e dalle vie del Ghetto e del Grottone. L’attuale impianto “a fuso” di Città Sant’Angelo deriva dalla successiva espansione che si ottiene nel 1600 e 1700, con la costruzione dei palazzi gentilizi della borghesia agraria e con l’aggregazione dei nuclei abitativi preesistenti. Si determina così l’attuale centro storico, attraversato da un lungo corso, a sua volta intersecato, a destra e a sinistra, da una serie di stradine e vicoli racchiusi entro la cinta muraria e le porte parzialmente conservate. La struttura urbanistica con pianta a spina di pesce è chiaramente medievale, come appare dalla serie di stradine (chiamate “ruve”, rue) intersecanti il lungo corso che taglia in due il centro storico.

Città Sant’Angelo, dove si conserva una magia altrove perduta e dove il culto dell’angelo potrebbe avere qualcosa del poeta e scrittore Rilke per il quale l’angelo non ha nulla a che vedere con la figura tradizionale cristiana del medesimo, ma ne trae solamente gli attributi come Bellezza e Grandezza, che intende come superiorità e positività. Risonanze angeliche intravediamo nel colore dorato dei mattoni in controcanto alla pietra bianca, nella calda tonalità bruna che le facciate di chiese e palazzi assumono al tramonto, negli ombrosi vicoletti dove si spinge l’aria di mare. La prima emergenza architettonica che si incontra all’ingresso del nucleo antico, sullo sfondo dei giardini comunali, è la chiesa di Sant’Antonio, a navata unica con pareti ornate da stucchi barocchi. Uscendo nella villa Comunale, si nota una cisterna del 1886, che regge gran parte del giardino e si arriva alla chiesa di San Michele Arcangelo, uno dei più importanti monumenti dell’architettura abruzzese, edificata su un precedente edificio del IX secolo nel 1200 nella zona iniziale del centro storico, elevata al rango di Collegiata dal 1353, il monumento simbolo di Città Sant’Angelo è costituita da due navate e completata da un pregevole porticato, diviso in due atri coperti tra i quali si innesta l’ampia gradinata di accesso che conduce all’artistico portale, realizzato nel 1326 dallo scultore di Atri Raimondo di Poggio.

L’interno è di stile barocco, con soffitto a cassettoni lignei del 1911 e affreschi trecenteschi di ottima fattura, attribuiti al Maestro di Offida. Vi sono ammirabili pregevoli tesori come l’imponente statua in legno policromo di San Michele del XIV secolo, la statua in terracotta policroma della Madonna delle Grazie del XIV secolo del Maestro di Fossa, il sarcofago quattrocentesco del Vescovo Amico Buonamicizia del 1457 e un prezioso coro ligneo intagliato con leggio dell’ebanista angolano Giuseppe Monti nel XVII secolo. Tra le varie tele presenti da citare la restaurata “Madonna della Purità e Santi” (2,10 x 3,10 mt) del 1611 del pittore ortonese Tommaso Alessandrino (1570 c.a. – Ortona 1640). Simbolo del primato della chiesa sul civile si innalza per 47 metri la grande torre campanaria, datata 1425 e costruita ad opera di maestranze napoletane.

Meritano poi attenzione i palazzi Di Giampietro, con cortile medievale ad ordini sovrapposti, Colamico, Sozj, Ursini, con elegante facciata, e Coppa Zuccari, la chiesa di San Francesco, inserita in un più vasto complesso architettonico, il cui adiacente convento di San Francesco dei padri Basiliani dal 1327 fu invece fondato nella seconda metà del XIII secolo, in seguito alla ricostruzione della città avvenuta nel 1240 e dopo la sua soppressione, nel 1809 divenne sede comunale dal 1809 e racchiude il prezioso chiostro restaurato con il meraviglioso portale trecentesco, opera di Raimondo di Poggio. La torre campanaria, a pianta quadrata, del Quattrocento; il pavimento a mosaico del 1845; la tela raffigurante la Madonna del Rosario e San Domenico, opera di Paolo De Cecco. Il rifacimento barocco dell’interno è del 1741, ma l’impianto primitivo della chiesa è del XIII secolo. I cospicui resti di affreschi rinascimentali sono stati scoperti da poco dietro una muratura. Si scende quindi per uno dei suggestivi vicoletti alla chiesa di Santa Chiara del XVIII secolo in stile barocco, annessa all’antico convento oggi adibito a centro culturale, unico esempio in Abruzzo e tra le poche in Italia a pianta trilobata (triangolare) con magnificenti stucchi e dorature, e con un pregevole pavimento a mosaico, con il parlatorio-cappella del convento delle Clarisse e la ruota degli esposti, il Museolaboratorio d’arte contemporanea, il “Luogo della Memoria“ che durante il fascismo fu campo d’internamento e il Giardino delle Clarisse, spazio adibito per spettacoli teatrali e musicali all’aperto. Sul colle di Santa Chiara, fuori le mura e dalla terra ed escluso dalla protezione della cerchia muraria della Civitas, era sorto verso la fine del XIII secolo un precedente monastero ricovero di Clarisse e già nel 1314 la piccola comunità di religiose si segnalava per la sua consolidata presenza.Apprezziamo ancora il palazzo Baronale, la dimora gentilizia più antica della città, e i palazzi Crognale, Colella, Maury e Castagna.

La chiesa di Sant’Agostino, con retrostante convento, opera di Alessandro Terzani da Como con una facciata di notevole effetto e la chiesa di San Salvatore, oggi Museo Civico con facciata classicheggiante, il palazzo Coppa, antico convento della chiesa di San Bernardo, costruita su una struttura del XIV secolo di cui restano alcune arcate e la cripta affrescata, palazzo Basile, attraverso Porta Sant’Egidio, edificata insieme a Porta Sant’Antonio (oggi Porta Nuova) tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo, mentre gli altri due ingressi, Porta Casale e Porta Licinia, risalgono forse al XIV secolo.

Sotto il Piano degli Zoccolanti, quello che oggi è il Giardino Comunale  si trova la grossa cisterna pubblica (detta cisternone) adibita a raccolta d’acqua piovana per fornire le fontane del paese, che ha richiesto otto anni di lavoro per costruirla. All’epoca l’acqua non arrivava in tutte le case ed il Cisternone consentiva l’alimentazione di tutte le fontane pubbliche del paese. Grazie a dati raccolti da osservatori meteorologici muniti di pluviometro si studiò la portata che era di 700 millimetri/mq di superficie e utilizzando le coperture prive di canali dei fabbricati Teatro, Chiesa dì San Francesco, Comune, Chiesa di Sant’Angelo, Asilo Scuola, Convento, si ottenne una superficie di 5.000 mq, che moltiplicati per i 700 mm/mq, produceva 3.500.000 litri di acqua che defluiva con buona pendenza tramite una condotta in terracotta.

Nel più antico nucleo abitativo di Città Sant’Angelo, il Casale, troviamo una via denominata Strada del Ghetto. Diverse le ipotesi sul toponimo di questa via tra cui un’alterazione di Borghetto per via della sua modesta estensione, ma recenti studi evidenziano documenti che attestano la presenza di una comunità ebraica a Città Sant’Angelo e in Abruzzo. Ghetto che probabilmente si costituì a causa dell’editto del 1427 della Regina Giovanna II che ordinò la segregazione degli ebrei in un’unica strada.  Città Sant’Angelo, come molti altri Comuni abruzzesi, ospitò, in quel lasso di tempo che va dal Basso Medioevo a tutto il Rinascimento, una folta comunità ebraica. Da testimonianze storiche e documenti d’archivio, sappiamo che i figli d’Israele erano presenti ad Aterno, nei pressi di Pescara, fin dal lontano 1062, tant’è che l’antica Chiesa di Santa Gerusalemme, i cui resti si trovano nelle vicinanze dell’attuale Cattedrale di San Cetteo, fu originariamente una Sinagoga. Un altro nucleo molto più importante risiedeva a Lanciano già dal 1156, così come vi erano comunità giudaiche nelle città dell’Aquila, Sulmona, a Pianella. Queste presenze erano giustificate dalle opportunità lavorative che l’Abruzzo dell’epoca offriva ai “giudei”. A norma di legge essi non potevano in alcun modo esercitare nessuna professione al di fuori di quella di tessitore, conciatore e medico e non potevano, in ossequio alla vecchia norma di Tedosio II (438 d.C.) accedere a qualsiasi carica pubblica, ivi compresa quella di fare il soldato o diventare proprietari di immobili, pertanto, non restavano loro che poche attività, tra queste vi era quella di prestare il denaro ad interesse: l’usura, pratica, quest’ultima, tassativamente proibita ai cristiani. A tal riguardo è da considerare che, durante tutto il periodo storico della transumanza, Città Sant’Angelo, per la propria posizione geografica, è stata sempre luogo di grandi scambi commerciali e di conseguenza anche terra di grandi possibilità economiche che la fecero divenire “terra” fertile per cambiavalute e chiunque altro potesse offrire servizi finanziari.

Le porte d’accesso al borgo che prevedevano ingressi alla cinta muraria di Città Sant’Angelo sono numerosi ma solo alcuni sono relativi alle mura risalenti alla ricostruzione del XIV secolo. Le porte, tutte in laterizio e attualmente visibili, sono 4: Porta Casale e Porta Licinia (o Borea) risalenti alla cinta muraria più antica, del XIV secolo e Porta Sant’Egidio e Porta Sant’Antonio (o Nuova) costruite tra il 1700 e il 1800. Fino al XIX secolo nei pressi dellIstituto Magistrale era presente una quinta porta, architettonicamente più imponente delle altre, quella di San Michele che era l’accesso principale al borgo. Le porte storicamente sono servite anche per difendere il paese dagli attacchi dei briganti che all’epoca imperversavano nei paesi e nella zona. Si aprivano all’alba e si chiudevano all’imbrunire. Con le epidemie di colera che colpirono Città Sant’Angelo, soprattutto quella del 1861, si dispose la costruzione di tre nuove porte, in legno di rovere, con le quali chiudere i punti d’accesso al paese, rimasti sguarniti “…da moltissimi anni addietro…”, Porta Sant’Egidio, Porta Borea e Porta Sant’Antonio. La Torre dell’Orologio, situata nell’ex palazzo Pachetti nel cuore del borgo di Città Sant’Angelo, anticamente torre d’avvistamento e sede del deposito delle armi della “Civitas” che solo intorno al 1750 fu trasformata in orologio.

Il 10 giugno 1940 il Governo Italiano istituì in diverse regioni 43 campi di concentramento per confinati o internati, di cui quindici in Abruzzo e per la provincia di Pescara fu scelto il Comune di Città Sant’Angelo che accolse dal febbraio 1941 centocinquanta persone. Vi erano rinchiusi comunisti e socialisti, liguri e triestini, un anarchico toscano, numerosi ebrei originari di Fiume, molti nazionalisti croati, sloveni e monarchici serbi della Dalmazia. Da dire che si creò una perfetta osmosi tra l’ambiente paesano e gli internati all’insegna del rispetto reciproco tanto che Città Sant’Angelo nel codice degli agenti segreti alleati durante la seconda guerra mondiale era definita “il paese della gente buona”. E fu l’antico edificio dell’ex convento delle Clarisse, nel periodo 1941/1944, fu utilizzato dal fascismo come campo d’internamento per oppositori politici e per perseguitati a causa della propria nazionalità o fede religiosa, ma la popolazione angolana si distinse esponendosi alle ritorsioni delle truppe nazifasciste accogliendo sfollati, ex internati e fuggiaschi, nelle proprie case e dando loro aiuto.

Gli internati nelle ore di libera circolazione in paese, frequentavano regolarmente soprattutto le famiglie colte di Città Sant’Angelo e numerose sono le testimonianze dirette di tanta natura ospitale e generosa, con l’ambiente umano e culturale di Città Sant’Angelo in quel periodo che viene descritto “privo di alcuna coscienza politica, ma ricco di un grande senso di solidarietà”.  Scriveva John Sommer, ebreo rifugiato in quegli anni: “Città Sant’Angelo accolse sfollati, stranieri, ex internati (tedeschi, inglesi, jugoslavi,polacchi ed altri) senza denunziarli, incarcerarli. Questo è ammirevole perché altri paesi europei e regioni italiane non avevano uguale grado di civiltà e di tolleranza negli anni di guerra”, per la qual cosa  e per le vittime del bombardamento del 22 maggio 1944, le fu conferita nel 2012 dal Presidente della Repubblica Napolitano la Medaglia d’argento al Merito Civile al Gonfalone del Comune di Città Sant’Angelo.

La strada del Castello allude all’esistenza nella zona di un edificio fortificato che oltre mille anni fa era sede dell’antico castello e dal 1314 trasformatosi in convento degli Eremitani di Sant’Agostino. Alle estremità della collina troviamo: l’Abbazia di San Pietro (anteriore al mille) e il Castello.  Infine, dai libri di scuola si apprende che i primi moti carbonari si ebbero a Napoli nel 1820 seguiti da quelli piemontesi del 1821. I Moti Carbonari del 1814 e i Martiri Angolani, ma pochi sanno (tranne gli angolani) che la prima ribellione alla tirannide straniera partì proprio da Città Sant’Angelo nel 1814 contro il regime di Gioacchino Murat, re di Napoli ed anche sovrano dei nostri concittadini di allora che facevano parte del suo reame. La reazione di Gioacchino Murat non si fece attendere ed il giorno di Pasqua, 10 aprile 1814, fece marciare verso Città Sant’Angelo un esercito di 5.000 uomini, provenienti dalle guarnigioni delle città vicine, con tanto di cavalleria e numerosi cannoni e purtroppo le conseguenze per gli insorti furono gravose.

Foto by Abruzzomania

Fonti:
Dai moti carbonari del 1814 all’Unità d’Italia – Il Risorgimento a Città Sant’Angelo.
A cura di Giancarlo Pelagatti – Soc. Cooperativa “Archivi e Cultura”
Quaderni dell’Amministrazione Comunale di Città Sant’Angelo

“Città Sant’Angelo, ipotesi di un racconto per immagini” di Massimo D’Arpizio e Graziano Gabriele – 1991

https://it.wikipedia.org/wiki/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Citt%C3%A0_Sant%27Angelo)

 

 

Eccellenza d’Abruzzo n. 43 – Castelli (TE): la Cappella Sistina della Maiolica

Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo.  Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 43° Eccellenza, una delle più ammirevoli della regione, quella del comune di Castelli, in provincia di Teramo, la Cappella Sistina della Maiolica. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 262, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.

L’antico borgo di Castelli, straordinario gioiello che si erige tra i monti perfetti e protettivi dell’Abruzzo teramano, situato nella valle del Mavone, arroccato tra i torrenti Rio e Leomogna, sotto il  Monte Camicia, ai piedi del massiccio del  Gran Sasso, patrimonio della cultura nazionale, capitale della Maiolica” e sede e custode della Cappella Sistina della maiolica, costituisce una delle perle più preziose della provincia di Teramo non solo per l’amenità del luogo, per i suoi monumenti e memorie storiche, ma anche e soprattutto per il suo ricco patrimonio artistico che vive e prospera  grazie all’operosità di molti artigiani che da secoli si tramandano, di padre in figlio, la maestria e i segreti della ceramica. Un paese ricco di un bene prezioso: la ceramica, famoso nel mondo per la produzione di ceramiche di straordinaria qualità e raffinatezza, che detiene un ruolo nella storia della maiolica italiana di primissimo piano, riconducibile al periodo che va dal XVI al XVIII secolo.

La ceramica (dal greco antico κέραμος, ‘kéramos’, che significa “argilla”, “terra da vasaio”) è un materiale inorganico e molto duttile allo stato naturale, rigido dopo la fase di cottura con cui si producono diversi oggetti, come stoviglie, oggetti decorativi, materiali edili (mattoni, piastrelle e tegole), rivestimenti per muri e pavimenti di abitazioni. Il colore del materiale ceramico varia a seconda degli ossidi cromofori contenuti nelle argille (ossidi di ferro, da giallo, arancio, rosso a bruno; ossidi di titanio, da bianco a giallo) e può essere smaltato e decorato.

L’arte ceramica di Castelli, in Abruzzo, ha origini antichissime, ma è divenuta celebre nel Cinquecento. Furono la buona fattura delle maioliche, le decorazioni vivaci, ma anche l’economicità dei prodotti, dovuta a innovativi sistemi produttivi, che fecero di Castelli uno dei centri più apprezzati per quest’arte, soprattutto nel Seicento. Vari gruppi familiari abruzzesi produssero ceramiche di Castelli, a partire dal Cinquecento fino all’inizio dell’Ottocento e si sono succedute nei secoli nell’intento di far splendere ogni angolo di arte e storia, le famose Famiglie di Ceramisti tra cui ricordiamo la Famiglia De Dominicis, la Famiglia Fuina, la Famiglia Gentili (conosciuta anche come Gentile), la Famiglia Grue, la Famiglia Paolini e la Famiglia Pompei.

In questo contesto di straordinarie meraviglie, brilla una luce, la chiesa cinquecentesca di San Donato (non è nota l’epoca in cui essa fu stata dedicata al santo), che sorge poco fuori lo splendido borgo abruzzese, monumento che rappresenta un unicum nell’ambito del patrimonio ceramico italiano ed un bene culturale di impareggiabile valenza,  di cui l’intero Abruzzo dovrebbe andare fiero e che purtroppo in pochi conoscono. La Chiesa fu eretta nel XVI secolo e nacque anticamente come cona che significa chiesetta di campagna, una cappella monumentale agreste dotata di uno straordinario pezzo raro di soffitto a maiolica, che costituisce, assieme al coevo vasellame farmaceutico denominato Orsini-Colonna, il punto di partenza ideale di una produzione successiva che godette di grandissima fama, in Italia e all’estero, tanto che una delle raccolte più importanti di ceramiche di Castelli è oggi conservata al museo dell’Ermitage, a San Pietroburgo.

L’edificio venne dedicato alla Madonna del Rosario nel XV secolo, fu ampliato agli inizi del Seicento, fino a prendere la forma attuale e nel 1963 questa chiesa fu definita dallo scrittore Carlo Levi con l’incredibile appellativo di Cappella Sistina della Maiolica, per via del suo splendido soffitto maiolicato, unico in Italia e dallo studioso di Oxford, Timothy Wilson, “una delle imprese più ambiziose della maiolica italiana sul finire del Rinascimento”. E’ un’impresa decorativa di vaste proporzioni, interamente costituita di tavelle decorate a maiolica, di dimensioni 20×40 cm, in circa 1000 (attualmente 800) esemplari, risalenti al 1615-1617 circa 400 anni fa che diedero vita al cosiddetto stile San Donato che ha alimentato per secoli la operosità delle botteghe castellane che hanno prodotto in notevole quantità pezzi di rara bellezza e originalità per motivi devozionali o commerciali, facendone una delle tematiche tipiche dell’artigianato locale, assieme al “paesaggio” e al “fioraccio“.

Per la realizzazione dei mattoni del soffitto spiovente, anche se quelle attuali sono copie degli originali trasferiti nel Museo civico di Ceramiche, la chiesa è considerata un caso unico di eccezionalità artistica nel panorama mondiale. Opera unica nel suo genere, è in parte esposta al Museo della Ceramica di Castelli che conserva le tavelle rotte o deteriorate. La realizzazione viene attribuita ai ceramisti della famiglia Pompei, in particolare ad Orazio Pompei, anche se l’opera di decorazione della chiesa fu un lavoro che coinvolse tutti i decoratori del paese, mentre il risanamento e il restauro furono realizzati a cura delle Antiche Fornaci Giorgi, attorno al 1972.

I temi raffigurati sulle mattonelle sono vari: simboli araldici, animali apotropaici, scritte religiose e modi di dire, decorazioni floreali, disegni geometrici semplici. Il soffitto si deve nella sua realizzazione all’opera degli abitanti castellani, che lo realizzarono per devozione come ex voto alla Vergine Maria, e i maiolicari castellani riuniti in una apposita confraternita, attuarono questo progetto per produrre un opera che tramandasse ai posteri una testimonianza dell’alta qualificazione raggiunta dalla loro categoria. Pertanto fecero realizzare questi 800 sacri mattoni tra il 1615 e il 1617, con scene di santi, beati, scene di vita di Cristo e Maria e dell’Antico Testamento, come attesta una scritta latina dipinta su una sequenza di mattoni, che dice: “le genti della terra di castelli fecero questo soffitto ad onore di Dio ed allo stesso tempo a perpetua memoria della Beata Vergine Maria”. Le capriate spioventi sono divise in comparti con allineamento di cinque mattoni in fila, trattenuti da travicelli.

In origine nella Chiesa vi erano più di mille mattoni che durante i secoli hanno subito diverse traversie: quando gli inverni erano rigidi e sul tetto della Chiesa si accumulava molta neve, dal momento che le tegole gravavano il loro peso direttamente su detti mattoni, alcuni di essi si rompevano; certuni cadendo si frantumavano, altri spaccati a metà e rimasti in bilico, venivano tolti e sostituiti con altri integri e con decorazioni generiche. Il nuovo soffitto degli anni sessanta ha sostituito quello vecchio risalente al cinquecento, costituito sempre da maioliche copie dei mattoni originali, che nel frattempo erano stati impiegati per il pavimento, subendo il degrado dei piedi dei fedeli che li calpestavano e nel secolo scorso furono prelevati dalla chiesa e trasferiti nel Museo delle Ceramiche di Castelli, dove sono attualmente custoditi ed esposti al pubblico. Il soffitto, a causa delle deformazioni intervenute nelle travature, dovette perdere diversi mattoni, ma è stato oggetto di un radicale restauro nel 1968, con il consolidamento e la sostituzione delle strutture lignee. In tale occasione sono stati anche sostituiti i mattoni perduti o deteriorati, ma alcuni esemplari originali furono depositati nella locale Raccolta Civica.

La illustrazione del soffitto, raro monumento, fu un’impresa decorativa di rilevanti proporzioni, storicamente connotabile quale l’espressione d’un preciso clima culturale, quello controriformistico e delle predilezioni e delle esigenze celebrative di una classe sociale, quale appunto baronale ed alto prelatizia dei committenti. La decorazione del soffitto in legno adornato con mattoni maiolicati con raffigurazioni, su fondo blu, di profili di uomini e di donne, scritte con preghiere, segni zodiacali ed ornati vari, nei colori giallo, arancio e verde ramina, ha come caratteristica la presenza di temi geometrici e stereometrici, dal ricercato effetto di trompe l’oeil, a triangoli, a rombi, a lacunari e rosoni, con motivi radiali, e poi ornati, girali, foglie d’acanto, festoni floreali e frutti dal sapore cinquecentesco, e decorazione anche di fauna, di volatili, cani da caccia, levrieri, cavalli da corsa, piccoli cervi, serpenti e lepri. Tra gli episodi tratti dalla Bibbia abbondano i motivi cari al repertorio decorativo dei ceramisti come il nodo di re Salomone, il sole a raggi taglienti e serpentiformi, il raro partito ornamentale a treccia, e ancora stemmi delle famiglie nobiliari che ebbero in feudo Castelli: i De Sangro, i D’Aquino, i Brancaccio. Suggestiva e di rara forza espressiva è la decorazione “contemporanea” figurata molto particolareggiata con una ricchissima serie di immagini degli abiti alto borghesi maschili e femminili ritratti dal vero, dovuti a ceramisti dal forte talento di caratterizzatori, veri e propri pittori di fisionomie che costellano il soffitto.

Castelli non è solo “il soffitto della Sistina” ma è depositaria anche di altri straordinari luoghi della cultura, come il Museo delle Ceramiche di Castelli istituito nel 1984 per promuovere la cultura e l’arte della maiolica e per salvaguardare la storia e le tradizioni locali ed è ospitato nell’antico convento dei Frati Minori Osservanti del XVI secolo e la scuola artistica “Francesco Antonio Grue” fondata nel 1906 presso l’ex convento degli Osservanti di Castelli (XVI secolo) per volontà di Beniamino Olivieri e Felice Bernabei, sindaco del paese e direttore generale di Belle Arti, trasformatasi nel 1961 in Istituto Statale d’Arte per la Ceramica e nel 2009 in liceo artistico per il Design, che ha lo scopo di ripercorrere il lavoro e l’arte delle storiche botteghe castellane, attraverso la preparazione culturale, tecnico-pratica ed espressiva dei giovani castellani. La scuola conserva una parte della prestigiosa collezione di documenti storici, incisioni, spolveri e disegni del maestri ceramisti di Castelli, in gran parte provenienti dalla bottega Gentili, oltre a una raccolta di Ceramica Contemporanea, istituita come museo nel 1986 insieme al Museo delle Ceramiche, raccolta nata in occasione di partecipazioni a mostre, concorsi, viaggi di istruzione, comprende opere di oltre 300 artisti mondiali. Infine nel borgo troviamo il Museo dell’Artigianato, i luoghi di culto e le botteghe storiche e da non dimenticare che esemplari splendidi di ceramiche castellane sono raccolti in importanti collezioni private ed esposti nei più grandi musei del mondo come il British Museum, l’Hermitage, il Louvre e il Metropolitan Museum of Art.

Fonti:

Foto by Abruzzomania

https://www.comune.castelli.te.it/scopricitta/sezione.aspx?ID=5

https://it.wikipedia.org/wiki/Maiolica_di_Castelli

https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_San_Donato_(Castelli)

https://abruzzoturismo.it/it/castelli-e-la-cappella-sistina-della-maiolica

https://iduepunti.it/18_novembre_2016/adottiamo-la-cappella-sistina-della-maiolica

https://www.ilmartino.it/2019/06/a-castelli-la-bellezza-senza-tempo-del-soffitto-maiolicato-della-chiesa-di-san-donato-carlo-levi-la-defini-la-cappella-sistina-dabruzzo/