Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 62° Eccellenza, quella del comune di Pennapiedimonte in provincia di Chieti con la sua straordinaria eccellenza, le Case Rupestri dichiarate Monumento Nazionale nel borgo scavato nella roccia detto la Matera d’Abruzzo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 243, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Alle pendici della Majella, tra le montagne più suggestive del centro Italia, é Pennapiedimonte “la Pinna ai piedi del Monte” detta la Matera d’Abruzzo perché conserva un numero incredibile di grotte utilizzate come abitazioni costruite in pietra locale scavate nella roccia viva nelle quali hanno vissuto le varie generazioni, tramandate fino ad oggi, con il suo centro abitato situato su di un irto costone a picco sulla valle del torrente Avello. Il borgo conserva i segni di insediamenti umani antichissimi ed è abbarbicato sul fianco della montagna, inespugnabile come un castello naturale; lungo le vie che salgono a serpentina verso la parte alta del paese, o su e giù per le scale che realizzano ardite “scorciatoie”, si scorgono ovunque scorci caratteristici o si aprono panorami mozzafiato.
Lo spettacolare borgo con le strette vie e antichi frantoi rupestri ricavati nella roccia e la cava delle “pile dell’olio”, come entrare in un “trappeto”, è incastonato nella pietra bianca della Majella orientale costruito attorno alle gallerie scavate per prelevare pietra della Majella, la caratteristica roccia bianco/grigia utilizzata nei secoli sia per uso edile e sia per scopi artistici e per questo definito anche Borgo degli scarpellini. Antichi maestri gli scalpellini locali che affascinano con le loro splendide sculture e alla sommità del Borgo si passeggia lungo il panoramico Balzolo un vero e proprio spettacolare monumento litico naturale. La loro disposizione a gradinate, con strette vie, di cui alcune percorribili solo a piedi, con gli elementi stilistici dei cornicioni, dei capitelli, dei portali, delle sculture in pietra lavorata, costituiscono un patrimonio architettonico unico e di enorme pregio, segno dell’attività un tempo fiorente di ricercati maestri scalpellini. Le nuove generazioni sono quelle che stanno ridando vita al borgo, il recupero delle case, stalle e frantoi rupestri per loro è una priorità proprio per conservare le proprie origini e la propria storia.
A Pennapiedimonte il tempo sembra essersi fermato e per le vie del borgo è facile percepire suoni della vita che scorre lentamente e sentire profumi caratteristici dei luoghi dove si conduce ancora una vita sana e genuina. Gli ambienti recuperati sono visitabili e tanti sono stati oggetto di attività di recupero che non ne ha stravolto la loro natura. Stare qui sembra di raggiungere il cielo! Pennapiedimonte, bomboniera d’Abruzzo, che offre un panorama straordinario in grado di unire mare e montagna. Il borgo degli scalpellini che dà il benvenuto ai visitatori con un’accogliente piazzetta e la bianca chiesa dei santi Silvestro e Rocco. Pennapiedimonte, borgo oggi meravigliosamente “fuori dal tempo”, un paese fa favola.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 61° Eccellenza, quella del comune di Montorio al Vomano in provincia di Teramo, con la sua straordinaria eccellenza, l’antico borgo dalle origini antichissime. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 244, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Montorio al Vomano è un magnifico borgo medievale della Val Vomano dalle antichissime origini, la cui storia è inevitabilmente legata al fiume Vomano, chiamato da Plinio “Flumen Vomanum“, che divideva i pretuziani che abitavano la sponda sinistra, dai Vestini-Pinnensi e dagli Atriani, che si trovavano alla sua destra nella zona prossima all’Adriatico. Ha per cornice un territorio fatto di piccole valli, dove scrosciano ancora i fiumi più irrigui, che ascendono fino alle vette del Gran Sasso d’Italia in un susseguirsi di campi, prati, boschi e fiori alpestri e che si snoda tra scorci suggestivi, pregevoli palazzi medievali e monumenti di notevole valore artistico, un luogo ricco di storia, numerosi sono i tesori culturali che racchiude, vestigia delle varie dominazioni che vi si sono succedute. Il nome Montorio deriva da Mons Aureus, “Monte d’oro”, come dimostra la presenza di stemmi nel centro storico della cittadina ipotesi avvalorata dal simbolo comunale risalente al XIV e XV secolo che riporta nella sua iconografia traccia dell’etimologia, che raffigura infatti tre colli con delle spighe di grano piantate sopra, un oro quindi che farebbe riferimento alle lussureggianti coltivazioni di grano che ricoprono i colli attorno il paese. Habitat di specie da salvare e proteggere, Montorio al Vomano è custode di un grado di biodiversità così alto da permettere l’istituzione del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga ed è posta all’imbocco dell’area protetta, diventata “la vetrina del Parco” e punto di partenza della Strada Maestra del Parco in cui si può effettuare una splendida passeggiata tra storia e natura ed oggi è una porta d’accesso del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga.
Il borgo, che si snoda tra scorci suggestivi, pregevoli palazzi medievali e monumenti di notevole valore artistico ed è un luogo ricco di storia, numerosi sono i tesori culturali che racchiude, vestigia delle varie dominazioni che vi si sono succedute, con la parte più antica chiamata “il colle”, dal caratteristico aspetto di anfiteatro con più ordini di case situate a scaglioni dove fra le ammucchiate casette di costruzione cinquecentesca e lungo una schiera di antiche e caratteristiche abitazioni, sopravvivono ancora i resti dell’incastellamento medievale, presso la Rocca, e le imponenti vestigia del Forte S. Carlo, l’edificio voluto nel 1686 dal Vicere spagnolo di Napoli, il Marchese del Carpio, per dare alloggio alle truppe occupate nella lotta contro il brigantaggio, ma rimasto incompiuto e del quale rimangono oggi imponenti ruderi delle forti mura. Nella parte bassa, si slarga la piazza dalla quale si snodano le vie del paese, con le più antiche abitazioni gentilizie di costruzione seicentesca; una serie di palazzotti tutti molto interessanti, con i bei patii interni a corte, i portali a ghiera con grossi conci sagomati e gli eleganti portaletti con chiave d’arco. Il palazzo marchesale Camponeschi-Carafa, con il suo imponente portale e gli splendidi affreschi interni che risalgono al 1500. Particolare menzione merita la Torre dell’orologio che, oggi, presenta un quadrante di maiolica di Castelli con sfere di rame placcate in oro ma, anticamente, ne aveva uno dipinto in nero e alle 2 di notte suonava 44 tocchi, segnale al quale coloro che erano banditi dovevano rincasare. I due archi dell’antico Palazzo dell’Università di Montorio e la piccola ma scenografica Piazza della Conserva, con il vecchio lavatoio.
Considerevoli i ruderi di un rarissimo tempio pre-romano dedicato ad Ercole di cui oggi rimane il basamento di epoca italica, a circa 7 km da Montorio al Vomano, protetto da una tettoia con pannelli informativi, testimonianze di epoca romana, dove sulla riva sinistra del Vomano probabilmente sorgeva l’insediamento di Beregra o Beretra, posto lungo la Via Caecilia e alcuni storici sostengono che il borgo sia sorto sulle rovine o nei pressi di quest’antica località pretuziana di Beregra, mentre altri storici hanno voluto identificare questa antica città nell’odierna Civitella del Tronto. Graziosa e delicata icona votiva è la piccola Chiesa della Madonna del Ponte, cappella barocca con notevoli affreschi interni che ogni anno ospita la statua della Vergine durante la relativa processione e il dipinto della Madonna con Bambino oggi custodito nella chiesetta. Nell’antico Borgo si può ammirare la piccola ma deliziosa Chiesetta di San Filippo, cui si accede da una scalinata che offre scorci molto suggestivi fra le vecchie case, si notano alcuni pregevoli portali in pietra, fra cui la stupenda facciata quattrocentesca di Casa Catini, con il portale dei leoni dal cui interno, si può ammirare la pittoresca veduta sul corso del Vomano e al di sotto sono stati ritrovati i resti di una villa d’età imperiale. Nella bella piazza Orsini, l’antica piazza del Mercato, si affaccia la cinquecentesca Parrocchiale di San Rocco con la Collegiata, il trionfo del Barocco, fatta edificare a partire dal 1527 dalla contessa Vittoria Camponeschi con una duplice facciata, una in pietra e una a mattoni. Vi si aprono due portali, uno di forme tardo rinascimentali (1549) e l’altro, barocco, del 1633. Nell’interno sono custoditi 4 monumentali altari lignei settecenteschi intagliati e dorati con statue e due preziosi dipinti d’epoca uno del 1530 raffigurante la Resurrezione e l’altra, del 1607, L’Ultima Cena. Di notevole interesse artistico sono anche il busto ligneo cinquecentesco di San Rocco e l’Organo settecentesco di autore anonimo (cm. 450 x 370 x 180 ca.), strumento di grande rilevanza storico-artistica ed alcuni documenti rinvenuti nell’archivio parrocchiale, ne testimoniano la provenienza napoletana e la datazione al 1636, attestandolo come l’organo più antico finora conosciuto in Abruzzo.
La piccola Chiesa inizialmente dedicata a San Francesco poi consacrata a S. Antonio quando sulla porta della chiesa fu scoperta un’iscrizione del Santo con annesso convento di S. Francesco, la cui fondazione è ignota ma, per forma e costruzione, si suppone sia stata edificata prima dell’Ordine dei Minori (prima del ‘500). Ai lati dell’altare maggiore sono i rappresentanti due miracoli del Santo: quello della mula che s’inginocchia davanti al Sacramento e, sulla sinistra, quello di Sant’Antonio morente che viene portato a Padova, opera del teramano Ugo Sforza. Nel cuore del centro storico Il Monastero dei Cappuccini legato al convento-chiesa della Santissima Concezione dei Frati Zoccolanti fondata nel 1576 e così chiamata dai montoriesi per l’usanza dei Frati Minori Osservanti di indossare zoccoli di legno, provocando rumore durante le processioni. con una forma a capanna rafforza da contrafforti, costruito nel Settecento presso il fiume Vomano che ha una navata unica barocca, con l’esterno che ricorda i monasteri trecenteschi, ricca di notevoli testimonianze artistiche, fra cui begli altari lignei di cui il maggiore fu intagliato dal famoso fra’ Giovanni Palombieri di Teramo, verso la fine del ‘700. Interessanti i due affreschi dell’altare principale, uno con il Papa che concede la bolla di riconoscimento dell’Ordine di San Francesco, l’altra raffigurante l’estasi del Santo. Suggestivo il Chiostro un tempo affrescato con immagini di Santi e stemmi gentilizi pitturati da monaci che dal 1998 è stato trasformato in un museo di arte, cultura e tradizione popolare della Vallata del Vomano e che raccoglie la collezione privata dell’artista Giovanni Gavioli che in oltre 30 anni ha reperito migliaia di antichi attrezzi della civiltà contadina. Di notevole interesse è la ricostruzione in miniatura degli antichi mestieri e scene di vita quotidiana che sono in gran parte animate e danno uno spaccato della vita tipica delle popolazioni abruzzesi della fine dell’ottocento e i primi anni del novecento riproducendo molti antichi mestieri ormai scomparsi.
Per l’artigianato artistico, stupendo è il Presepe ideato in ambiente suggestivo dal montoriese Giovanni Gavioli, aperto al pubblico durante il periodo natalizio con centinaia di figure, vestite nei costumi tradizionali dei propri mestieri, che in un paesaggio mirabilmente illuminato e costellato di case, mulini in movimento, costituiscono un capolavoro di genialità. Chiudiamo con una serie di note: la più particolare riguarda la tradizione folkloristica Montoriese con il “Carnevale morto” in cui si celebra nel giorno delle ceneri un vero e proprio funerale usanza di antichissima origine derivante direttamente dalla commedia dell’arte. Altro importante avvenimento è la “Congiura dei Baroni”, rievocazione storica in costume d’epoca che trae spunto da una battaglia combattuta a Montorio il 7 maggio 1486 fra i baroni, fautori della restaurazione angioina e le truppe di Alfonso d’Aragona, figlio del re Ferdinando e che ogni anno si svolge nel centro storico cittadino e che propone tra l’altro la corsa pazza nuda per le vie del paese. Si conclude la carrellata di curiosità con lo “Stù”, un gioco di carte forse di origine irlandese pressoché sconosciuto in Italia e nel periodo di Natale adulti e bambini si affrontano con un mazzo di quaranta carte dipinte con originali figure, discutendo e giocando con gesti, contrattazioni e fraseggi in dialetto. Montorio al Vomano, un borgo da vedere!
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 60° Eccellenza, quella del comune di San Vito in provincia di Chieti, con la sua straordinaria coppia di eccellenze, il Trabocco Turchino e l’Eremo Dannunziano. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 245, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Il trabocco ha sempre rappresentato il simbolo della Costa dei Trabocchi ed è sempre stato una forte connotazione del brand turistico d’Abruzzo. Uno dei più belli della Costa dei Trabocchi, il Trabocco di Punta Turchino, si trova a San Vito. Situato nel “Quarto di sotto” in località Portelle, unico della zona a non essere adibito ad attività di ristorazione, prende il suo nome dalla sua posizione, si trova infatti in corrispondenza di una piccola sporgenza della costa denominata promontorio di Capo Turchino, uno dei luoghi più affascinanti di San Vito e qui, complice anche la posizione a strapiombo sul mare che caratterizza tutta la zona, lo spettatore potrà sentirsi trasportato in un’epoca lontana.
E’ completamente realizzato su palizzate di legno senza fondazioni ma fissate in equilibrio, a volte con strallo di cavi e con fissaggio di pali alla roccia. Attraverso un percorso su tavole di legno da riva si arriva al casotto di pesca e alla piattaforma dalla quale, attraverso un complesso sistema di tiranti e bilancieri, è possibile immergere e ritirare le reti da pesca.
E’ questo il famoso trabocco di cui parla D’Annunzio nel suo “Trionfo della morte”, ma già citato in lettere a Barbara Leoni sua amante (soprannominata “la bella romana”) nel 1889 e così lo descrive il Vate “…all’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e travi, simile a un ragno colossale…“.
A due anni dal crollo avvenuto per una violenta mareggiata nella notte tra il 26 e il 27 luglio 2014 il restauro del Trabocco ha consentito la rinascita di un simbolo della cultura e delle tradizioni abruzzesi, riconoscendo la sua valenza culturale, storica e artistica, con inaugurazione avvenuta il 4 Giugno 2016. La ricostruzione della macchina da pesca è costata 185 mila euro attraverso finanziamenti della Regione Abruzzo (110 mila euro) e del Comune di San Vito (75 mila euro).
I trabocchi furono inventati nel XVIII secolo da famiglie ebree di pescatori, sulla costa di San Vito ed il più antico è quello di Punta Turchino. Successive costruzioni si ebbero oltre che in Abruzzo, anche in Puglia (Vieste e Peschici). Oggi i trabocchi sono stati ricostruiti ed ampliati rispetto ai precedenti originali, ma non sono più funzionali al loro scopo precipuo, quello della pesca. Diversamente non potrebbe essere, perché, nonostante gli importanti interventi di raccolta delle aste fognarie effettuati dai comuni del bacino imbrifero fin dagli anni sessanta, il funzionamento non sempre a pieno regime degli impianti di depurazione che sussiste ancor oggi ha permesso in varie occasioni l’accumulo di una certa quantità di agenti inquinanti nel torrente Feltrino che sfocia nei pressi del molo, rendendo non sempre commestibile l’eventuale ittiofauna pescata.
I trabocchi nell’area comunale sanvitese sono: Trabocco Mucchiola (confine Ortona-San Vito, località Ripari); Trabocchi “Vento di Scirocco” e “San Giacomo”, sul pontile del lungomare di Gualdo, presso la Marina; Trabocco Punta Fornace, su viale Colombo, lungo la SS 16; Trabocco Turchino (calata Turchino, località Fosso San Fino); Trabocco Annecchini (località Fosso San Fino, sotto il promontorio dannunziano); Trabocco Traforetto (SS 16, località Portelle); Trabocco Valle Grotte (SS16, località Fosso Canale).
Spicca A San Vito insieme al trabocco Turchino e all’omonima spiaggia site a poca distanza, straordinaria eccellenza di questo altrettanto straordinario luogo, l’Eremo dannunziano chiamato anche eremo di San Vito dove nell’estate del 1889 risiedette Gabriele d’Annunzio. Attualmente il casolare è adibito a casa-museo dedicata a Gabriele D’Annunzio. Il promontorio, denominato anch’esso “dannunziano”, si configura come parte dell’eremo e ospita un piccolo centro di documentazione sulla flora e fauna marina della zona. È situato al di sopra del Trabocco Turchino, descritto e immortalato da D’Annunzio in uno dei suoi romanzi, Il trionfo della morte. “…Quella catena di promontori e di golfi lunati dava l’immagine d’un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L’aria respirata deliziava come un sorso d’elisir.”
In questa residenza il poeta pescarese soggiornò dal 23 luglio al 22 settembre 1889 insieme alla sua amante Barbara Leoni (soprannominata la “bella romana”), qui trovò ispirazione e ambientazione per il Trionfo della Morte, ultimo della cosiddetta trilogia dei Romanzi della Rosa dopo Il piacere e L’innocente. Nel testo è ai piedi del promontorio che i protagonisti del romanzo perdono la vita. La residenza, oggi di proprietà privata, può essere visitata d’estate su richiesta.
D’Annunzio affittò la casa del massaro Nicola di Sciampagna, detto “Cola”, presente anche nel Libro III del Trionfo della morte tra i personaggi citati dal poeta. L’innamorata di D’Annunzio, Barbara Leoni detta affettuosamente “Barbarella“, era nata come Elvira Natalia Fraternali a Roma il 26 dicembre 1862, aveva sposato nel 1884 il conte Ercole Leoni da cui prese il nome, un matrimonio infelice a causa della sua sterilità provocata da una malattia venerea trasmessa dal marito. Il poeta D’Annunzio si incontrò con Barbara il 2 aprile 1887 presso il Circolo Artistico di via Margutta a Roma, assistendo a un concerto; al loro amore presto sbocciato, iniziarono a nascere i pettegolezzi, così D’Annunzio si rivolse all’amico francavillese Francesco Paolo Michetti perché trovasse in Abruzzo un rifugio sicuro lontano dalle malelingue e dalla chiassosa città romana. Michetti trovò un casale nei pressi di San Vito Chietino, lungo la costa adriatica, dove i due amanti passarono l’estate del 1889.
Secondo la critica l’amore di D’Annunzio per la Leoni fu tra i più genuini insieme a quello per la Duse, il 20 luglio 1889 inviata da Pescara in una lettera nella quale aveva riportato uno schizzo della casetta dell’eremo, D’Annunzio avvertiva Barbara: “Parto ora da Francavilla, sono stato stamani in San Vito, con Ciccillo [Michetti]. Oh, amor mio, che nido strano e meraviglioso! Bisognerà che sii molto paziente, perché ogni comodo della vita mancherà…! Il poeta fece ricoprire il giardino dell’eremo di ginestre non appena giunse la Leoni, soprattutto il viale sterrato che collegava l’eremo alla stazione ferroviaria sulla Marina. D’Annunzio tornerà all’eremo anche nei primi anni del Novecento, in segreto, ritrovando ancora il massaro Cola che glielo affittò. Di recente è stato acquistato da Fernando De Rosa, un cassinate salvatosi dalle battaglie cruente della seconda guerra mondiale, fuggendo il 15 febbraio 1944 dalla città bombardata. Il De Rosa ristrutturò l’eremo, cercando di riportarlo alla struttura originaria dell’epoca di D’Annunzio, ricostruendo la camera da letto e la biblioteca.
Barbara Leoni era morta a Roma nel 1949, sepolta al cimitero del Verano. Dato che la concessione trentennale della tomba stava per scadere, il De Rosa provvide a riesumare il corpo, nel 2009 è stato collocato nel giardino della casa sanvitese, in un piccolo tumulo ornato, con l’incisione in versi “Barbarae Leoni / Siste! / Sub hisa saxis / sunt ossa / frementia amore: / hic / ubi amore arsit / Barbarae rursut / adest / F.D.R / Memorae causa”. D’Annunzio invece ricorderà un’ultima volta la costa sanvitese e l’eremo nelle pagine del suo Illibro segreto di Gabriele d’Annunzio (1936).
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 59° Eccellenza, quella del comune di Rivisondoli in provincia di L’Aquila, con il suo magnifico Borgo fortificato arrampicato. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 246, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Il borgo di Rivisondoli (AQ) è una rinomata località di turismo sia estivo che invernale, base di partenza per escursioni sciistiche nel comprensorio di Roccaraso, ma è anche e soprattutto un antico borgo fortificato, un tempo racchiuso tra imponenti mura. Situato alla base del Monte Calvario, tra l’altopiano delle Cinque Miglia e quello di Roccaraso, dopo il devastante incendio del 1792, l’attuale aspetto della cittadina è prettamente di carattere storico-artistico ottocentesco. Alcuni resti a testimonianza delle antiche fortificazioni sono ancora visibili le porte che consentivano l’accesso al borgo, la quattrocentesca Porta Antonetta caratterizzata dai tipici piombatoi e la porta nei pressi di Palazzo Sardi, nonché la cosiddetta Porta di Mezzo.
E’ tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, il paese andò acquistando la tipica fisionomia di borgo arrampicato, avvinghiato alla roccia, centrale rispetto alle aree coltivabili e alle zone adibite a pascolo che tornavano ad essere decisive per l’economia ed il progresso sociale del luogo, il quale, finita l’epoca delle invasioni, cominciava di nuovo a fiorire grazie alla ripresa della transumanza.
Il nucleo del borgo arroccato che sempre di più si sviluppò dal ‘300 in poi è ancora oggi evidente e presenta una struttura urbana raccolta, con edifici che s’affacciano su un sistema viario reticolare originario, fatto di stradine a scalinate che assecondano perfettamente il ritmo del pendio, e provvisto di un particolare tipo di cinta muraria (case a schiera).
Non solo l’incendio del 1792 ma anche eventi bellici e tellurici (come il terremoto del 1915) hanno cancellato per sempre molte evidenze storico-artistiche, risparmiando tuttavia importanti testimonianze architettoniche quali il Palazzo Baronale, la settecentesca chiesa del Suffragio e la chiesa di Sant’Anna; quest’ultima, restaurata nel 2013, è la cappella annessa al palazzo Baronale e internamente ospita un altare barocco in stucco.
Da visitare nel borgo sono la Chiesa parrocchiale di San Nicola di Bari, ricostruita nei primi anni del ‘900 nello stesso luogo su cui sorgeva quella antica, la Chiesa di Santa Maria del Suffragio con il suo portale dalle volte barocche ed il Santuario di Santa Maria della Portella a cui è rivolta una particolarissima devozione popolare. Nacque nel periodo del 1300 la primitiva ed ormai scomparsa chiesa parrocchiale di Santa Maria a Fonte o dell’Ospedale che si ergeva di fianco all'”albero della fonte“, un olmo altresì non più esistente, che si riteneva prova dell’origine longobarda del comune, e alla piccola ma monumentale fontana che rappresenta l’unica superstite vestigia dell’antica parrocchia.
Ciò che l’ha resa famosa anche a livello internazionale è la Sacra Rappresentazione del Presepe Vivente che ha luogo il 5 Gennaio di ogni anno: l’intero borgo è scena della venuta del Salvatore, la popolazione tutta è coinvolta in quella che è certamente una delle manifestazioni abruzzesi di maggior rilevanza. Il Comitato Presepe si è reso promotore di molteplici iniziative di carattere culturale, prima tra tutte l’allestimento di un Museo dell’Arte Presepale, oltre ad aver creato un piccolo ma interessantissimo Museo del Costume.
Per chi si recherà a visitarla, un saggio consiglio è quello di assaggiare il tradizionale pane casereccio locale preparato con lievito naturale e patate e le deliziose ciambelle di San Biagio. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 cominciò una fase di straordinaria importanza per Rivisondoli, con l’inserimento sulla ferrovia Sulmona-Isernia e l’arrivo di re Vittorio Emanuele e della sua famiglia, che nel 1913 furono ospitati nell’elegante edificio ottocentesco dell'”albergo degli Appennini“, attualmente conosciuto come “residenza reale“. La venuta dei reali contribuì a fare diventare Rivisondoli una delle più note stazioni sciistiche e favorì l’arrivo di sempre maggiori quote di turisti ed appassionati della montagna.
Fra gli altri edifici di valore storico-architettonico vi sono alcune “case” e palazzi settecenteschi: Casa De Capite, Casa Torre, Casa Romito, Casa Caniglia, Casa Gasparri, Casa Notar Grossi e Casa delle Signorine Ferrara, quest’ultima situata al lato dell’antico teatro del paese; di spicco è il Palazzo Ferrara in via del Suffragio, appartenuto al gentiluomo Don Eugenio Ferrara, grande proprietario terriero e illuminato podestà di Rivisondoli nel periodo fascista. In tutti i casi, si tratta di edifici caratterizzati da portali con elementi anche molto particolari, incorniciati da fregi in pietra finemente lavorata e in alcuni casi anche da “vignali“, tipici pianerottoli con scala prospicienti l’ingresso, e da balconi e terrazzini che fanno registrare la presenza di accurati lavori in ferro.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 58° Eccellenza, quella del comune di Palombaro in provincia di Chieti, la Grotta di Sant’Angelo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 247, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Palombaro noto come la “sentinella della Majella” per via della sua posizione strategica situata su un colle a guardia degli antichi percorsi tratturali è il classico borgo immerso nella tranquillità, nella storia e nelle forti tradizioni religiose.
Il piccolo borgo è presente nel territorio la Riserva Naturale Fara San Martino Palombaro, nota per la presenza dell’orso marsicano, del lupo appenninico, del capriolo, del cervo e del camoscio d’Abruzzo, ma la sua eccellenza a quasi 800 metri di quota, in un contesto naturalistico molto suggestivo a Valle di Palombara, una delle più spettacolari della Majella, caratterizzata da pareti sulle quali si aprono numerose grotte, all’interno del Parco nazionale della Majella, è la Grotta di Sant’Angelo con annessa la Chiesa rupestre di Sant’Agata d’Ugno che era anticamente destinata al culto di San Michele Arcangelo, di cui ora resta solo l’abside in conci di pietra squadrata in stile romanico.
Gli archetti su tutto l’invaso dell’abside sono in pietra calcarea della Majella. La sua parte interna è chiusa da una grande roccia obliqua e dai resti di una costruzione. Due tratti di mura sono raccordati da un’abside semicircolare che costituisce il resto più evidente della chiesetta altomedioevale. Le mura e l’abside sono interessati da una fila di archetti pensili. L’abside è impreziosito da decorazioni con cordonature a tortiglioni. La parte interna è occupata nella parte bassa da una roccia che la attraversa quasi completamente. Su di essa sono ricavati dei gradini irregolari che portano nella zona absidale.
La costruzione dell‘eremo risalirebbe all’XI secolo ma la prima e unica notizia storica della chiesa è del 1221 e si rileva da una bolla di Onorio III° che cita i possedimenti dell’abbazia di San Martino in Valle tra cui le chiese di Sant’Angelo e di San Flaviano di Palombaro. La grotta conserva i resti delle numerose cisterne utilizzate per la raccolta delle acque.
Essa è un enorme riparo sotto la roccia che ha pianta rettangolare con l’ingresso largo 35 metri che oltre i ruderi della chiesa, conserva i ruderi di quattro cisterne per la raccolta di acqua piovana di cui, le prime due sono poste al lato destro dell’ingresso, la prima è di forma semicircolare, mentre la seconda è di forma rettangolare collegate fra di loro per mezzo di un foro. La terza vasca è di forma ellissoidale ed è stata realizzata ai piedi di un masso roccioso nel fondo della grotta, questa cisterna raccoglieva l’acqua di scolo della grotta. La quarta cisterna è sita all’esterno ha una forma pseudorettangolare e presenta un foro di scolo.
La tradizione vuole che la chiesa fu costruita tra il XI ed il XII secolo su un tempio dedicato a Bona, dea della fertilità ed una tradizione racconta che le puerpere fedeli alla dea Bona si recassero nella grotta e cospargersi con l’acqua delle sorgenti all’interno della grotta le mammelle per tutte le caratteristiche perché vi nascesse in seguito un culto per S. Michele Arcangelo:
Ci sono anche riti ed eventi collegati alla grotta e si narra che le puerpere si recavano nella grotta per aspergere le mammelle con l’acqua che scaturiva all’interno e favorire così l’abbondanza di latte e la presenza delle numerose vasche scavate nella roccia sembra confermare questa antica usanza
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 57° Eccellenza, quella del comune di Fano Adriatico in provincia di Teramo, con la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 248, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Fano Adriano sorge probabilmente sui resti di un antico insediamento romano e sotto la signoria di Pardo Orsini, fece parte del Marchesato della Valle Siciliana che aveva la sua capitale a Tossicia e seguì le vicende del Regno fino all’unità d’Italia. Interessante è il centro storico, raccolto intorno alla Chiesa madre, eccellenza del paese di cui parleremo in seguito, centro storico che conserva caratteri architettonici cinquecenteschi, specialmente nella zona detta “del Coro” e a Piazza Prato, dove è possibile ammirare un’abitazione privata che presenta anche un esempio di “gafio“, elemento architettonico di derivazione longobarda tipico dell’alta valle del Vomano e testimonianza dell’appartenenza al ducato longobardo di Spoleto.
Una assoluta curiosità è il motto di Fano Adriano: le cosiddette “7 effe” espressione ritrovata in alcune antiche epigrafi nel territorio del paese. Nell’immaginario popolare, esse sarebbero un gioco di parole, di esortazione ai fanesi: “Fanesi Furono Forti Fatevi Forti Figli Fanesi“. In realtà, secondo gli studiosi è probabile che il suo significato originale fosse molto diverso: si riferirebbe, infatti, a ciascuno dei 7 templi (in latino Fanum) dell’Ager Hatrianus (dell’antica Grecia l’anfizionia rappresentava una lega di città vicine a scopo di culto), il principale fra i quali era proprio quello di Fano Adriano. Si tratta di un’antica e misteriosa epigrafe la cui derivazione e il cui significato sono ancora sconosciuti. il tempio sito in Fano sarebbe stato dedicato al dio Adrano e, situato sul colle più alto (m. 1000), sarebbe stato il primo in ordine di importanza.
Nella parte più antica dell’abitato è sita la Chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo con una facciata cinquecentesca, il campanile del 1550 ed il portale realizzato nel 1693 che reca nella lunetta delle maioliche di Castelli ottocentesche attribuibili a Tito Barnabei. Eretta nel 1335 sui resti di un tempio romano, presenta forme cinquecentesche ha un’interno diviso in tre navate e scandito da una serie di archi a tutto sesto affrescati con motivi geometrici e figure di Santi (1592). Di grande interesse è la simbologia presente in essi legata al mondo rituale e magico della tradizione abruzzese (lingua fallica, cariatidi che impudicamente mostrano i seni e il pube ecc. etc). Pregevoli sono i soffitti lignei seicenteschi, in particolare quello della navata centrale, datato al 1608 ma di impianto ancora rinascimentale, a cui furono aggiunte delle tele nel tardo Seicento e poi nel Settecento.
La presenza di un’immagine di San Domenico inserisce anche questo soffitto nell’intensa opera educativa condotta dai Domenicani, a partire dal Seicento, attraverso la decorazione degli edifici sacri delle aree periferiche abruzzesi. Gli altari lignei barocchi propongono una mescolanza di elementi eterogenei che vanno dall’impianto rinascimenatle della struttura, mescolando ad ascendenze berniniane (da accertare è ancora il ruolo dell’intagliatore RICCIONI, che si pensa abbia fatto parte delle maestranze utilizzate da BERNINI per le sue realizzazioni in San Pietro), all’elemento popolare, testimoniato dall’uso del legno e dall’iconografia delle parti decorative.
La facciata della chiesa è costruita con blocchi di arenaria locale, diversi dal materiale di costruzione del corpo dell’edificio e identici alla parte più antica del vicino eremo dell’Annunziata da cui probabilmente provengano. Il portale in pietra del 1693 è ornato da una lunetta in ceramica di Castelli, raffigurante i santi Pietro e Paolo, ed è affiancato da due piatte lesene che le conferiscono un aspetto che ricorda da vicino l’impianto delle Chiese aquilane. La loggia sul fianco sinistro è databile al XVI secolo grazie ad un capistello che reca la data della battaglia di Lepanto (1571) mentre il porticato sul retro è frutto di un restauro settecentesco (1741 circa). Il campanile, quadrangolare, è in pietra lavorata a bugnato rustico ed irregolare e porta la data del 1658.
L’organo settecentesco, opera di Adriano Fedri, è posto sulla cantoria mistilinea intagliata, dipinta e dorata. La chiesa conserva altresì alcuni dipinti cinquecenteschi e seicenteschi tra cui un “Trionfo dell’Immacolata” dei ravennati Ragazzini, un “Sant’Antonio abate con storie della sua vita” d’ignoto pittore meridionale e una “Sant’Anna con la Vergine Maria“. Sul retro della chiesa, vi è una nicchia affrescata con “La vergine del Rosario“, guasta opera di un allievo del Barocci.
Per concludere una interessante curiosità che riguarda Fano Adriatico: il termine “Grignetti” da cui abbiamo attinto buona parte delle notizie sulla eccellenza della Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, si fa riferimento a delle antiche vasche scavate nella pietra situate in una zona poco fuori il paese. Furono probabilmente antichi pigiatoi per la vinificazione che alcuni fanno risalire al periodo preistorico ma che più probabilmente trovano una datazione più realistica nel periodo medievale. La scelta di tale nome risiede nel forte valore simbolico di tali pigiatoi, vestigia di attività scomparse ma forti nella memoria, resistenti al tempo, arroccati tra guglie e creste rocciose maestose.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 56° Eccellenza, quella del comune di Palena in provincia di Chieti, con il Castello Ducale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 249, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Il castello ducale di Palena detto un tempo anche Castel Forte, risale al XII secolo, ma fu alterato nell’epoca cinquecentesca con l’ampliamento della struttura. I primi insediamenti normanni risalgono all’XI secolo a Palena, e originalmente il castello ducale era solo una torre di controllo, poi ampliata con la costruzione della struttura difensiva. E’ posto su di uno sperone roccioso sul punto più alto dell’abitato e spicca nel contesto del paese per la sua mole nella parte più alta del centro storico di Palena, il fortilizio si articola su tre livelli con un giardino pensile ed un terrazzo panoramico: presenta un corpo centrale intorno al quale si sviluppano due ali laterali.
Questa antica roccaforte è in realtà giunta a noi in forme più riconducibili alla tipologia del palazzo fortificato che a quelle di un vero e proprio castello. Oggi il palazzo è caratterizzato da una pianta rettangolare irregolare, che si rivela frutto di aggiunte e trasformazioni secolari. Esternamente le cortine murarie leggermente scarpate, sono l’unico elemento che ancora ne rivela l’origine militare, mentre altri elementi, come le file di ampie finestre e la loggetta sull’avancorpo, ne danno l’immagine di una residenza nobiliare sobria ma elegante. Maestoso, superbo, solitario, si erge sull’erta roccia e più volte è stato restaurato a causa della vetustà, di vicende belliche e terremoti, perdendo così la sua originale caratteristica costituita dal sontuoso palazzo feudale e dal “maschio”. Resta soltanto la “loggia” che si affaccia sopra la roccia a strapiombo».
La Torretta di Controllo fu costruita circa nel 1956, nel piazzale del cortile del castello ducale, con l’aggiunta di merlature, di quattro orologi per ciascuna facciata, e una cella campanaria sulla sommità per suonare le ore, quando la giunta comunale decise di abbattere la vecchia torretta di guardia della piazza della chiesa di San Falco, perché giudicata pericolante dopo i bombardamenti nazisti. Tale fatto non è mai stato chiarito, in quanto alcune parti sostenevano che la vecchia torre fosse in perfetto stato. Ciononostante la torre fu demolita, e di essa oggi rimane solo un arco, e la nuova torre fu costruita, in aspetti architettonici medievali, nel piazzale del cortile del castello ducale.
La prima testimonianza che attesti l’esistenza del Castello risale all’anno 1136: sorto probabilmente su un antico tempio dedicato alla dea Cerere, dea della terra e della prosperità, per successivi ampliamenti l’originario fortilizio, ha assunto l’aspetto di una struttura complessa. La storia e la leggenda narrano che le origini del castello vanno probabilmente rintracciate nel pieno Medioevo. Sorto nel periodo dell’invasione normanna, le cronache ci riferiscono che intorno all’anno 1000 era signoreggiato da un Matteo di Letto. Durante il periodo svevo, il castello era signoreggiato dal conte Tommaso di Caprofico, ghibellino, che sebbene fosse stato un ardente sostenitore di Federico II, era un fervente religioso. Si racconta che nel 1216 queste mura ospitarono il Poverello di Assisi, San Francesco, che si dirigeva da Guardiagrele a Castelvecchio Subequo. Il suo passaggio rimase per sempre nella memoria del paese e di coloro che lo governarono a tal punto che Florisenda, la figlia del Conte Tommaso Vinciguerra, che qui nacque nel 1239, ispirata dal poverello di Assisi. Florisenda crebbe nello spirito cristiano e, morto il padre, la vocazione alla vita monastica si fece via via più ardente. Celando un particolare disegno nel suo cuore, Florisenda chiese ai suoi fratelli di poter avere la parte di eredità lasciatale dal padre che comprendeva, fra le altre cose, la terza parte del castello di Forca Palena. Con questa proprietà, e 360 once d’oro ottenute dalla madre, Florisenda si recò a Sulmona, dove acquistò un edificio, ancora esistente in piazza Garibaldi, in cui nacque una comunità di Clarisse di cui ella stessa divenne badessa, il convento di Santa Chiara. Florisenda dovette combattere contro l’avversa volontà dei suoi fratelli che in tutti i modi tentarono di riappropriarsi della parte del castello di Forca Palena di sua proprietà: nonostante l’intervento del Vaticano a difesa delle prerogative della badessa Florisenda e del suo convento, la contesa si protrasse a lungo; il 15 gennaio 1305 Carlo II d’Angiò confermò alle clarisse la donazione dell’eredità di Florisenda, ragione per la quale l’area del castello di Forca Palena prese il nome di Quarto di Santa Chiara.
Oltre ad offrire ottima sicurezza di dominio, il catello era il centro residenziale della Contea omonima, l’antico Palatium in Domo, cioè terra dominicana. Al XIV secolo risale il dominio dei conti di Manoppello, al XV quello dei Caldora e dei Conti di Capua, ed infine dei D’Aquino che ne rimasero proprietari fino al 1807. Le origini del castello vanno probabilmente rintracciate nel pieno medioevo dal momento che Palena, già dall’anno mille, viene ricordata come feudo di Matteo Da Letto. In seguito la struttura passò nelle mani delle più importanti famiglie feudali della zona: dai conti di Valda, ai Conti Borrelli, dai Mallerius ai conti di Sangro, che apportarono notevoli modifiche alla struttura. Nel 1269 Carlo I d’Angiò donò il castello al feudatario Sordello da Goito, reso famoso da Dante Alighieri per averlo inserito nel Purgatorio della Divina Commedia. Nel XIV secolo il castello passò nelle mani dei duchi di Manoppello, e successivamente dei Caldora e dei Di Sangro. In quei secoli iniziarono a circolare crude leggende riguardo alle camere di torturasituate nei sotterranei della roccaforte, nel cuore dello sperone roccioso dove la struttura poggia.
La roccaforte, nel periodo Settecentesco e Ottocentesco fu usata come prigione per i ribelli, e venne soprannominato Castel Forte, e gli ultimi padroni furono i baroni di Colledimacine, prima che il castello, nel Novecento, venisse definitivamente abbandonato. Terribili sono le leggende sulle prigioni del maniero. Intorno a questo storico maniero dell’antico Abruzzo Citeriore, cupe notizie si diffondevano a terrorizzare i servi della gleba: tetre prigioni dove si torturavano esseri umani e si commettevano nefandezze inopinabili; ancora oggi nei due angusti sotterranei del Castello ove venivano rinchiusi i rei e sul pavimento è ancora visibile il triste telaio dei condannati, il “trabocchetto” un orrido buco che inghiottiva i condannati a morte che venivano fatti precipitare dalla roccia per circa quaranta metri.
Nel secolo scorso il castello di Palena fu assai trascurato, e subì vari danneggiamenti tra cui la distruzione dei torrioni, del maschio e del belvedere dovute al terremoto del 1933 e alle incursioni naziste durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944. Nel decennio successivo il castello fu restaurato, nella sua forma originaria, senza i torrioni, e assunse fama quando divenne museo, infatti oggi il castello Ducale è oggi sede del Museo Geopaleontologico Alto Aventino e della “Casa degli artisti e degli uomini illustri di Palena” e al suo interno vengono periodicamente organizzate attività didattiche e ludiche per bambini su temi legati alla conoscenza del territorio. I visitatori del borgo possono lasciare i figli al castello per partecipare alle varie iniziative proposte giorno per giorno e prendere contemporaneamente parte ad altre attività dedicate agli adulti. I terremoti del 1706 e del 1933 ferirono profondamente il complesso, cui la seconda guerra mondiale non risparmiò danni e distruzioni, ma oggi il Castello ducale, dopo una lunga campagna di restauro è tornato a nuova vita.
Fonti
Foto by Abruzzomania – comune.palena.ch.it – abruzzocitta.it
Castello ducale di Palena – Wikipedia
Palena – Wikipedia
Castello Ducale – Comune di Palena
Castello Ducale – Palena (Ch) | Regione Abruzzo | Dipartimento Sviluppo Economico – Turismo (abruzzoturismo.it)
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 55° Eccellenza, quella del comune di Montefino in provincia di Teramo, con il Borgo Medievale. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 250, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
“Scendendo da Bisenti verso Castiglione, sulla sinistra, come nido feudale, le povere case di Montefino…”. Così una guida del Touring di oltre mezzo secolo fa descriveva il piccolo borgo di Montefino dalle abitazioni per lo più in pietra grigia, molte delle quali persino non intonacate, ma comunque affascinanti a vedersi, aggrappate come sono le une alle altre e circondate da spessi muraglioni di sostegno. Depliant turistici d’epoca la definivano ‘città del silenzio’, forse alludendo alla laboriosità degli abitanti del borgo che, impegnati nell’ardua impresa di coltivare un terreno profondamente segnato dal fenomeno erosivo dei calanchi, risultavano poco disponibili alle cosiddette ‘chiacchierate di cortesia’.
Montefino, antica “Monte Secco” come si rileva da un documento dell’anno 1019, sorge a 375 metri sul livello del mare, su un’altura scoscesa lungo la valle del Fino che conserva l’aspetto del borgo incastellato. Il borgo, che vanta origini antiche, incerte e avvolte nel mistero, risalenti all’epoca dei Sabini in cui è stata ipotizzata una presenza umana, è caratterizzato da una struttura tipica dei siti difensivi di epoca medioevale e domina il versante nord del percorso del fiume Fino, e ancora oggi è raggiungibile attraverso un’unica strada, tortuosa e piuttosto ripida. Nel tessuto edilizio sopravvivono, soprattutto nella parte più alta del colle, case databili tra il XVI e il XVIII secolo, le più antiche in pietra con architravi lignei alle aperture. Dell’antico castello resta in piedi un torrione quadrangolare con basamento a scarpa assai manomesso e pochi altri lacerti. Le murature sono in pietre semi lavorate, disposte a ricorsi regolari con poca malta. Il vano terragno della torre è coperto da volte a crociera e la struttura è databile al XIV secolo.
Più in basso sopravvivono a tratti le mura che racchiudevano il borgo e si nota un torrione rotondo dove una più antica struttura in pietrame appare inglobata nelle muraglie in laterizio della cinta fortificata di epoca successiva (XV-XVI secolo), della quale si notano i beccatelli e le caditoie. Di questa cinta fa parte anche la Porta da Pié ad arco ogivale e possenti travature lignee. Le date settecentesche che si rilevano su due mattoni probabilmente testimoniano restauri e risarciture dell’epoca. Anche da questa parte del paese le antiche mura furono inglobate dal muraglione di sostegno moderno realizzato intorno al 1935. In via dei Pensieri si notano, rimessi qua e là in opera nelle mura, alcuni pezzi erratici, provenienti con ogni probabilità da una chiesa diruta del paese: un blocco con scolpita una rosetta a sei petali e un frammento di parasta con decoro a motivo vegetale possono anche risalire al XII secolo, e un blocco con testina d’angelo sormontata da un fregio ad ovoli del XVI-XVII secolo.
Oggi l’unica testimonianza di quei tempi remoti è un tratto di strada nei pressi del fiume, probabilmente facente parte del tracciato della via che collegava Teramo alla potente Roma, passando per Monte Giove e Bisenti, fino a Penne. La prima notizia storica del paese risale all’età normanna, e precisamente al 1150: un documento di quell’anno, infatti, riferisce di un centro denominato Castellum Montis Sicci, specificando che apparteneva alla contea di Penne e che si trattava di un feudo del conte Roberto di Aprutio di appena 65 abitanti. Un altro documento, questa volta del 1273, ne parla invece come di un paese chiamato Mons Siccus (Montesecco), forse alludendo alla mancanza di sorgenti d’acqua. Certo è che nel 1454 l’odierna Montefino diventa feudo degli Acquaviva, che fecero restaurare il castello e le fortificazioni murarie.
Ancora oggi Montefino, nonostante il recente sviluppo commerciale e industriale, conserva l’umiltà che gli deriva dalla storia e dalla tradizione contadina, e passeggiare per i vicoli e le piazzette del suo bel centro storico è un’esperienza interessante che consente di riscoprire tutto il gusto e il fascino del passato. Di storia e tradizione contadina, Montefino custodisce gelosamente le sue antiche tradizioni, caratterizzandosi soprattutto per la produzione artigianale di sedie e cesti in vimini, a cui ancora oggi si dedicano molti degli anziani del paese ancora con la stessa passione e lo stesso orgoglio di un tempo seguendo le stesse tecniche e gli stessi rituali in uso da centinaia di anni e ad aiutare questo ‘ritorno ai bei tempi che furono’ è anche il mantenimento delle antiche tradizioni, come la coltura delle piante di ulivo, il ricamo su stoffa, le lavorazioni all’uncinetto. Uno spettacolo da non perdere, infine, è lo splendido panorama sulla vallata del Fino e i dintorni, ammirabile dalle varie terrazze esistenti in paese a giro d’orizzonte.
Da ammirare nel borgo la Chiesa della Madonna del Carmine del XIV secolo, chiesa antica che fu fondata nell’XI secolo e poi rimaneggiata nel Medioevo. I resti della vecchia chiesa si vedono da una parte della muratura a scarpa in cui è in rilievo un angelo, sono stati ristrutturata in forma barocca. Il portale della facciata è semplice con architrave e timpano ed il campanile è a torre. Poi troviamo la Chiesa di San Giacomo Apostolo del XVII secolo, che fu costruita in epoca romanica ma oggi è del tutto barocca che quasi nascosta tra le case del paese, rappresenta una piccola perla riservata ai veri intenditori, in grado di apprezzarne a fondo ogni singolo dettaglio.. Ancora oggi all’esterno della parrocchia è possibile ammirare, ben conservata, la traccia più importante e significativa del suo passato: lo splendido portale cinquecentesco proveniente dalla vicina Abbazia dei Celestini, oggi abbandonata, sita nell’area cimiteriale del borgo. Si comprende che non sono le sue qualità architettoniche a fare di questo luogo di preghiera una meta imperdibile per chi si trova a passare nella Valle del Fino, quanto i ‘tesori’ che custodisce al suo interno. Tra questi i bei reliquiari del ‘600 di scuola spagnola, tutti in legno dorato, tra cui ne spicca uno raffigurante lo stesso S. Giacomo con una Bibbia nella mano sinistra, sormontata da un’immagine del paese di Montefino. Da evidenziare la presenza di una preziosa croce processionale (croce astile) quattrocentesca, in rame dorato e argento, opera di Nicola Gallucci da Guardiagrele, gelosamente custodita dal parroco, la reliquia più preziosa del paese che rappresenta il bene di maggior valore di questo piccolo borgo, tanto che viene esposta ai fedeli solo in occasione delle principali festività religiose.
Chiudiamo la carrellata delle bellezze di Montefino con il castello degli Acquaviva che pur danneggiato da una serie di forti terremoti, conserva tuttavia una bella struttura caratterizzata dall’imponente torrione cilindrico. Nel 1454 Montefino divenne un feudo dei duchi Acquaviva di Atri, che fecero restaurare le fortificazioni murarie e l’antico castello. Di questo oggi resta un’unica traccia, rappresentata dal torrione a pianta quadrata con spesse mura che svetta sulla sommità del paese e al di sotto di questa fortezza che, su terrazze, si sviluppa il centro abitato, di cui fanno parte anche la Chiesa di S. Giacomo e un secondo castello, più recente, che, edificato dagli stessi duchi feudatari sul finire del XV secolo, prende il nome appunto da quella nobile famiglia, essendo noto proprio come Castello degli Acquaviva. Discretamente conservato, si estende attualmente sul versante est della odierna Montefino, sopra uno sperone di tufo, in una posizione decisamente panoramica, e può vantare ancora oggi una bella e consistente struttura, in gran parte corrispondente all’impianto originario. L’elemento più caratteristico è senza dubbio il torrione angolare cilindrico molto simile a quello del Castello di Cellino Attanasio, dotato di apparato a sporgere che rende la struttura, già di per sé imponente, visibile sin da lontano per chi, dalla valle, si approssima al colle che ospita l’antico borgo. Il loggiato superiore è stato trasformato in terrazza negli anni ‘50, e oggi è possibile notare due muri di rinforzo, i cosiddetti scarponi, che fu necessario costruire nel 1734 per riparare ai danni arrecati da un forte terremoto che scosse la zona nel 1707. Originariamente nel Castello era presente anche una seconda torre centrale cilindrica, il dongione, di cui gli amministratori locali si videro costretti a predisporre e attuare la demolizione nel 1933, a causa dei danneggiamenti riportati dalla struttura in seguito a un nuovo, fortissimo sisma, che ancora una volta devastò l’intera regione all’inizio degli anni trenta.
Foto by Abruzzomania
Fonti:
Montefino, il borgo in meditazione – Tesori d’Abruzzo (tesoridabruzzo.com)
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 54° Eccellenza, quella del comune di Ortona in provincia di Chieti, la sua straordinaria Cattedrale di San Tommaso. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 251, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Tutto ebbe inizio quando Gesù rivolgendosi a lui, dice: «”Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro e tuttavia credettero!“» Questo è lo straordinario episodio maggiormente noto del Nuovo Testamento che coinvolge Tommaso, contenuto in Giovanni 20,24-29 e noto come “l’incredulità di Tommaso“. Tommaso, che dubitava della risurrezione di Gesù, incontra il Signore risorto e noi oggi possiamo incontrarlo in un luogo molto vicino, a Ortona, nella basilica di San Tommaso Apostolo, la concattedrale dell’arcidiocesi di Lanciano-Ortona, dove si custodiscono le reliquie di Tommaso apostolo dal XIII secolo, che nel dicembre del 1859 papa Pio IX ha elevato alla dignità di basilica minore. Dal 6 settembre 1258, data dell’arrivo in Ortona delle Ossa dell’apostolo Tommaso, la storia del popolo ortonese si identifica con la vita che ruota intorno alla Tomba di San Tommaso. La notizia della presenza del corpo dell’Apostolo si diffonde rapidamente, i pellegrini affluiscono per rivolgersi a Lui, la Chiesa locale si fa promotrice di varie iniziative, i pontefici gratificano i fedeli con la concessione delle indulgenze.
La chiesa fu costruita nel IX secolo sul sito di un antico tempio romano, ma danneggiata dai Normanni nell’XI, quando era dedicata a Santa Maria Regina degli Angeli. Ricostruita completamente nel XII secolo, fu riaperta al pubblico il 10 novembre 1127 e dal 6 settembre 1258 custodisce le Ossa di san Tommaso apostolo, reliquie autentiche, riportate dall’isola di Chio da Leone Acciaiuoli. La cattedrale fu devastata da un terremoto del XV secolo, e ricostruita sotto forma barocca, tranne il portale del Trecento, danneggiata ancora nel 1799 dai francesi, lo fu gravemente ulteriormente nel 1943 durante la battaglia di Ortona (il purtroppo famoso Natale di sangue) e ricostruita in aspetto pseudo-neoclassico per quanto riguarda la facciata, rimontando il portale di Nicola Mancino e ricostruendo l’interno nella matrice barocca. Della chiesa sopravvive di storico soltanto la cappella del sacramento dell’Ultima Cena, con importanti fregi e bassorilievi barocchi e con un impianto semi-longitudinale a pianta a croce greca, con la facciata su Piazza San Tommaso, decorata dal portale rimontato in stile gotico, con lunetta ornata dal gruppo di San Tommaso tra santi. Un secondo portale si trova su vico dell’Orologio, dove si trovava la torre fortificata che fungeva anche da faro della città, distrutta nel 1943, ed è il meglio conservato dell’epoca medievale. Il cupolone che poggia su quattro pilastri all’interno della chiesa, è più slanciato rispetto all’originario. Il campanile è una torre in mattoni rossi, edificata abbattendo il vecchio campanile sopravvissuto al 1943 conserva il grande “campanone” del 1605. Al suo interno, oltre alla cripta delle reliquie posta sotto l’altare che custodisce le spoglie di San Tommaso, vi è il Museo Diocesano, dove sono raccolti molti pregevoli dipinti e sculture sacre, facenti parte della storia ortonese. Delle quattro cappelle, la seconda di maggior importanza è quella di San Tommaso, dove si trova il busto argentato, restaurata ampiamente, con mosaici e affreschi di Tommaso Cascella che ridipinse anche gli affreschi dell’interno della calotta cupolare e dei pennacchi angolari, con disegni allegorici. Nelle linee generali, l’edificio presenta uno schema longitudinale che sembra seguire il modello delle grandi basiliche pugliesi impostosi lungamente già nei primi decenni del Duecento.
Il 17 febbraio 1427 in questa chiesa è stata solennemente proclamata la pace tra le città di Lanciano e Ortona patrocinata da San Giovanni da Capestrano e nel 1566 subì l’assalto dei Turchi di Piyale Pascià e un incendio, che per fortuna non attaccò in modo irrimediabile il Corpo dell’Apostolo. Purtroppo nel 1799 la cattedrale subì nuovamente un’altra aggressione da parte dei Francesi, per cui fu ancora restaurata. Il 5 novembre del 1943, il vicario della diocesi, mons. Luigi Carbone, il parroco di S. Tommaso don Pietro Di Fulvio e don Tommaso Sanvitale si ritrovarono insieme per un’importante decisione: dove e come salvare il busto d’argento di S. Tommaso. I Tedeschi, infatti, avevano mandato segnali contrastanti, informandosi del peso e del valore venale del busto. Un comandante cattolico si era impegnato a risparmiare la cattedrale e la torre semaforica ed i tre sacerdoti, non sapendo a chi credere, dopo meditata riflessione, decisero di “murare” il busto dell’Apostolo al secondo piano del campanile, in un angolo scuro, ricoperto di legname umido abbandonato. Procedettero in assoluto segreto lo stesso giorno alle ore 14, aiutati da due muratori: Nicola Di Fulvio, fratello del Parroco, e Peppino Valentinetti.
Poi arrivò la furia devastatrice della guerra, che causò alla città di Ortona oltre 1300 vittime civili e la perdita di tutto il patrimonio edilizio, con la cattedrale che fu letteralmente sventrata, rimase in piedi a malapena la sacrestia, sia pure con il pavimento ricoperto di macerie. L’11 gennaio 1944, quando la linea del fronte si andava allontanando, mons. Tesauri, arcivescovo di Lanciano e vescovo di Ortona, fece demolire l’altare costruito sulla tomba di san Tommaso ed estrasse l’urna che rivide la luce dopo 150 anni. In corteo le Ossa dell’Apostolo furono trasferite nel rione Castello, a casa del parroco. L’avvocato Tommaso Grilli curò il recupero dei pezzi artistici andati in frantumi con la guerra, quelli relativi al portone principale di epoca sveva e al portale gotico di Nicola Mancino. Il 16 luglio 1945, su un palco allestito nella piazza della cattedrale, tra la commozione degli ortonesi rientrati dallo sfollamento, mons. Tesauri celebrò in ritardo la festa del Perdono ed il sacro busto, estratto dal muro dove era rimasto nascosto, venne nuovamente esposto alla venerazione dei fedeli. Le altre reliquie del santo furono ritrovate intatte sotto all’altare. La cattedrale ricostruita fu riaperta al culto e ridedicata il 5 settembre 1949, con una solenne cerimonia celebrata da mons. Gioacchino Di Leo, vescovo di Ortona e dal cardinale Federico Tedeschini.
All’interno della cattedrale vi sono straordinari reperti del XIII secolo. Gli affreschi della cupola sono del pittore Luciano Bartoli; la figura di San Matteo Evangelista è l’unica rimasta dopo la distruzione della basilica per opera dei tedeschi, che è stata eseguita da pittore Antonio Piermatteo. Le immagini della Via Crucis sono dell’artista ortonese Stefano Durante. Nella cripta il crocifisso pendente è stato eseguito dallo scultore Aldo D’Adamo. All’interno conserva interessanti bassorilievi e due altorilievi a stucco “Ultima Cena” e “Sinite Parvulos” della prima metà dell’Ottocento da Vincenzo Perez. Ai suoi lati sono visibili le due ceramiche “Gli ortonesi in Scio” e “L’arrivo a Ortona delle reliquie di San Tommaso” eseguite da Tommaso Cascella. In questa cappella è custodito il busto d’argento reliquario di San Tommaso Apostolo che contiene alcuni frammenti delle ossa del cranio: è il terzo in ordine di tempo, fuso dalla fonderia Pani di Napoli nell’aprile dell’Ottocento. Il primo fu rubato nel 1528 dalle milizie mercenarie, il secondo fu rubato dai Francesi nel 1799 e poi fuso. Sulle pareti della cappella si possono osservare due dipinti a olio del 1985 del pittore Franco Sciusco.
Il Museo diocesano vede raccolto il sui primo nucleo della collezione museale nel secondo dopoguerra al fine di conservare e tutelare le numerose e pregevoli opere artistiche che vanno dal XII al XIX secolo, provenienti dal Duomo e da altri edifici di culto del territorio, scampate alla distruzione dei bombardamenti patiti dalla città di Ortona durante la Seconda Guerra Mondiale. Le opere in esso conservate, esposte in tre vasti ambienti, occupati nei secoli passati da altrettante cappelle collegate alla chiesa maggiore, rappresentano il livello artistico e culturale raggiunto da Ortona nel corso della sua storia ma soprattutto sono una testimonianza concreta della volontà di salvaguardare il proprio patrimonio culturale a beneficio delle future generazioni, anche nelle sciagure più devastanti, come fu certamente la distruzione alla quale la Città fu sottoposta nel dicembre del 1943.
Ma parliamo un po’ del Santo. Secondo un’antica tradizione, SAN TOMMASO iniziò la sua opera di evangelizzare dalla Siria, passando poi in Mesopotamia, dove fondò la sua prima comunità in Edessa, l’attuale Sanliurfa turca, poi raggiunse Babilonia, dove fondò un’altra comunità presso cui visse sette anni. Quindi si spinse fino all’India sud-occidentale, che raggiunse via mare nell’anno 52, dove iniziò la predicazione nella città portuale di Muziris, dove viveva una fiorente colonia ebraica. Dopo aver convertito al cristianesimo gli ebrei e molti indiani, ciò aiutò Tommaso fondò numerose comunità cristiane in tutta la regione del Kerala. Dall’India si recò in Cina per poi tornare ancora in India sulla costa sud-orientale del Coromandel morendo a Mylapore e lì sepolto. Nel III secolo avvenne nel sud dell’India una delle prime violente persecuzioni anti-cristiane e i fedeli vollero salvare le ossa di San Tommaso trasportandole nella sua prima comunità, Edessa (circa nel 232), da cui, poi, vennero traslate nel 1146 circa in un luogo ritenuto ancora più sicuro: l’Isola di Chios. San Tommaso vi riposò fino a quando, nel 1258, arrivarono a Chios alcune galee armate che facevano parte della spedizione militare organizzata nell’Egeo da Manfredi, Principe di Taranto e futuro re delle Sicilie, desideroso di estendere il suo dominio in Oriente. Dopo il saccheggio dell’isola, il 10 agosto, il pio navarca Leone, comandante delle 3 galee di Ortona, aiutato da pochi compagni fidati, trafugò da Chios le ossa di S. Tommaso e la lapide marmorea che le copriva, spiegando immediatamente le vele per l’Italia. Ma chi era Tommaso? Tommaso Didimo (cioè gemello) (Galilea, I secolo a.C. – Mylapore, 3 luglio 72) era pescatore sul lago di Genezareth ed è stato uno dei dodici apostoli di Gesù. È noto principalmente per essere il protagonista di un episodio della vita di Gesù, attestato dal solo Vangelo secondo Giovanni (20,24-29), in cui prima dubitò della risurrezione di Gesù e poi lo riconobbe. Quando i discepoli riferirono a Tommaso che avevano visto il Signore, lui stenta a crederci e afferma che se non lo vedrà con i suoi stessi occhi e non lo toccherà con le sue mani non crederà (Gv. 20, 25), Otto giorni dopo la Pasqua, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso che, partito da una condizione di incertezza e di dubbio, giunge alla più bella espressione di fede. Secondo la tradizione cristiana, si spinse a predicare il Vangelo fuori dei confini dell’Impero romano, in Persia e India, dove fondò la prima comunità cristiana. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa copta.
Negli Atti di Tommaso, testo gnostico del III secolo, si racconta che l’apostolo fu ucciso trafitto da una lancia, per ordine del re Misdaeus (Vasudeva I). Il martirio avvenne su una collina nei pressi dell’attuale Chennai, capitale del Tamil Nadu, il 3 luglio 72. San Tommaso fu sepolto a Mylapore, nell’India sud-orientale. Nel III secolo avvenne nel sud dell’India una persecuzione anti-cristiana. I fedeli salvarono le ossa di Tommaso trasportandole a Edessa (odierna Şanlıurfa, nella Turchia sud-orientale), il centro irradiatore del cristianesimo siriaco in Oriente, cui era legata la predicazione di San Tommaso. Successivamente furono traslate sull’Isola di Chio, nell’Egeo. Nel 1523 i portoghesi operarono un primo scavo nelle fondamenta della basilica denominata «casa di San Tommaso» (meta di pellegrinaggio dei cristiani dell’India) dove, secondo la tradizione, si trovava la tomba dell’apostolo. Sia nella Chiesa ortodossa siriaca del Malankara sia nella Chiesa cattolica, San Tommaso è festeggiato il 3 luglio: a Madras si trova la cattedrale di San Tommaso. Nel 1258 navarca ortonese, il pio Leone Acciaiuoli, insieme con i commilitoni, riportò sulla galea il corpo dell’Apostolo e la pietra tombale, dall’isola greca di Chios. Stando ai racconti degli storici abruzzesi Giovan Battista de Lectis e Giovanni Pansa, il capitano Leone partì con delle galere da Ortona per Chios, dove doveva svolgere degli incarichi per conto di re Manfredi di Svevia che aspirava non solo a conquistare l’Italia settentrionale, come in parte fece, ma anche a diventare imperatore d’Oriente. Nell’isola Leone fu avvicinato da un pellegrino che gli narrò la presenza di una grotta con il sepolcro del santo. Lo stesso Pansa ricorda che Leone, entrato nella grotta, fu abbagliato da una enorme luce, con una mano uscente da un foro, che gli indicò il luogo della sepoltura. Leone fu miracolato dalla cassa che riportò a Ortona con la nave perché come ricorda anche De Nino negli “Usi e costumi abruzzesi“, una luce molto forte guidò come un faro, sull’albero maestro, la nave di Leone, mentre la nave dei greci che lo inseguiva furibonda, fu come bloccata sul mare, e affondata da una tempesta. De Nino aggiunge il particolare dell’arrivo della cassa a Ortona, sulla salita del castello, sopra un carro di buoi, che si fermarono ginocchioni davanti alla cattedrale di Santa Maria degli Angeli, poi reintitolata al santo. Era il 6 settembre 1258. A Leone Acciaiuoli è dedicato l’istituto nautico di Ortona. Il pittore Tommaso Cascella nel restaurare la cappella dedicata al santo nella cattedrale di Ortona, realizzò un pannello a mosaico che ritrae il miracolo dell’apparizione a Leone Acciaiuoli, presso l’isola di Chios in Grecia. Il racconto che segue è fornito da Giambattista De Lectis, medico e scrittore ortonese del 1500: “Dopo il saccheggio, il navarca ortonese Leone si recò a pregare nella chiesa principale dell’isola di Chios e fu attratto da un oratorio adorno e risplendente di luci. Un anziano sacerdote, attraverso un interprete lo informò che in quell’oratorio si venerava il Corpo di san Tommaso apostolo. Leone, pervaso da un’insolita dolcezza, si raccolse in preghiera profonda. In quel momento una mano luminosa per ben due volte lo invitò ad avvicinarsi. Il navarca allungò la mano ed estrasse un osso dal foro più grande della pietra tombale, su cui erano incise delle lettere greche e raffigurato un vescovo nimbato a mezzo busto ed ebbe la conferma di quanto gli aveva detto l’anziano sacerdote di trovarsi effettivamente in presenza del corpo dell’Apostolo. Tornò sulla galea e progettò il furto per la notte successiva, insieme al compagno Ruggiero di Grogno. I due sollevarono la pesante lapide e osservarono le reliquiesottostanti. Le avvolsero in candidi panni, le riposero in una cassetta di legno (conservata ad Ortona fino al saccheggio del 1566) e le portarono a bordo della galea. Leone, poi, insieme con altri compagni, tornò nuovamente nella chiesa, prese la pietra tombale e la portò via. Appena l’ammiraglio Chinardo venne a conoscenza del prezioso carico trasferì tutti i marinai di fede musulmana su altre navi e ordinò di prendere la rotta verso Ortona. La galea che recava le Ossa dell’Apostolo navigò in modo più sicuro e veloce delle altre ed approdò al porto di Ortona il 6 settembre 1258.” Secondo il racconto di De Lectis, fu informato l’abate Iacopo responsabile della Chiesa ortonese, il quale predispose tutti gli accorgimenti per un’accoglienza sentita e condivisa da parte di tutto il popolo. Il 6 settembre 1258 Leone e le sue 3 galee entrarono nel porto di Ortona e la popolazione portò in processione ossa e lapide fino alla Chiesa Madre di S. Maria degli Angeli, trasformata nei secoli in Cattedrale e Basilica e cambiando anche il nome, dove San Tommaso ancora riposa, ormai da più di 750 anni. Da allora il corpo dell’apostolo e la pietra tombale sono custoditi nella cripta della Basilica. Nel 1259 una pergamena redatta a Bari dal giudice ai contratti Giovanni Pavone, alla presenza di cinque testimoni, conservata a Ortona presso la Biblioteca diocesana, conferma la veridicità di quell’avvenimento.
Nel 1475, alcuni gentiluomini ortonesi, con la speranza di arricchirsi, concordarono di asportare le Ossa di san Tommaso per offrirle al Signore di Venezia. L’unica chiave, che apriva la serratura della cassetta contenente i resti mortali dell’Apostolo, era custodita da don Mascio, che divenne loro complice. Il tentativo, perpetrato di notte, non riuscì perché i rei ebbero l’impressione di sentire la voce dell’Apostolo che ammoniva: “lassa stare”. Impauriti fuggirono, ma la notizia si diffuse rapidamente in città. Seguirono inchieste e arresti e contemporaneamente furono costruite le inferriate con catene e aumentate le chiavi fino a cinque. Da quel momento in poi, la custodia delle sacre Ossa divenne un incarico prestigioso e di forte responsabilità, affidato contemporaneamente a due consiglieri, eletti dal Consiglio cittadino, e ai canonici scelti dal Vescovo della Diocesi. Oggi le reliquie sono riposte sotto l’altare della cripta in un’urna di rame dorato con effigie realizzata nel 1612 dal pittore ortonese Tommaso Alessandrini.
Negli Atti di Tommaso, il martirio dell’Apostolo viene narrato in questi termini: “[…] Quand’ebbe terminata la suddetta preghiera, disse ai soldati: Su, eseguite gli ordini di chi vi ha inviato. Quelli vennero e lo trapassarono tutt’insieme con le lance. Cadde e morì”. Gli Acta Tomae, scritti originariamente in siriaco ad Edessa probabilmente alla scuola di Bardesane, gnostico del terzo secolo, sono giunti fino a noi con diverse interpolazioni e rifacimenti latini, quali il De Miraculis B. Thomae apostoli di san Gregorio di Tours e la Passio sancti Thomae. Gli Atti di Tommaso, pubblicati dalla collana biblica della casa editrice Marietti nel 1965, sono divisi in tredici capitoli e si chiudono con l’ultimo che parla del martirio di san Tommaso. Diamo una rapida sintesi dell’ultimo capitolo. Nell’ottavo e ultimo capitolo, Tommaso, trasportato su un alto monte, finisce ucciso a colpi di lancia dai bramini e il suo corpo trasportato ad Edessa. Gli antichi martirologi siriaci hanno identificato la data del martirio nel 3 luglio del 68, mentre i cristiani del Coromandel ritengono l’anno 72 la data del martirio.
Attualmente sono cinque le prove della presenza dell’Apostolo in Ortona: 1. la pietra tombale, riconducibile all’arte siro-mesopotamica, è databile al terzo – quinto secolo sia sotto il profilo paleografico sia dal punto di vista iconografico. In essa è raffigurata una immagine a mezzo busto di uomo nimbato e benedicente con ai lati una scritta in caratteri greci onciali (o osios thomas, cioè San Tommaso, termine osios che era usato con il significato di santo solo nei primissimi secoli del Cristianesimo). Nella parte inferiore della lapide, poi, si aprono due fori di diversa dimensione come quelli presenti nelle tombe dei martiri, sempre dei primi secoli, e di San Paolo, per le reliquie da contatto e per le libagioni. La pietra tombale, portata a Ortona da Chios insieme alle reliquie dell’Apostolo, attualmente è conservata nella cripta della Basilica di San Tommaso, dietro l’altare. L’urna contenente le ossa, invece è posta sotto l’altare. La lapide ha le dimensioni di cm. 137 x cm. 48 e lo spessore di cm.52 circa. Essa è il coperchio di un finto sarcofago, forma di sepoltura abbastanza diffusa nel mondo paleocristiano, quale parte superiore di una tomba di materiale meno pregiato. La lapide presenta un’iscrizione ed un bassorilievo che rinviano, sotto molti punti di vista, all’area siro-mesopotamica. Essa è databile dal punto di vista paleografico e lessicale al III-V secolo, epoca in cui il termine osios viene ancora usato quale sinonimo di aghios, nel senso che santo è colui che è nella grazia di Dio ed è inserito nella Chiesa, i due vocaboli, di conseguenza, indicano i Cristiani. Nel caso particolare della lapide di san Tommaso, poi, la parola osios può essere agevolmente la traduzione del termine siriaco mar (signore), attribuito nel mondo antico, ma anche ai giorni nostri, sia ad un santo sia ad un vescovo. Con tale termine, pertanto, si voleva indicare l’apostolo come primo vescovo della chiesa locale.
Guardando con più attenzione l’iscrizione, è possibile notare che sopra le due parole sono tracciati dei segni che rinviano alle indicazioni paleografiche per la presenza di abbreviature per contrazione: in tal caso le parole potrebbero significare il reale san Tommaso. Al centro della lapide è stato inciso un bassorilievo con l’immagine di un religioso, nimbato, in atto di impartire, con la mano destra, la benedizione (secondo il rito della Chiesa Orientale ed indicante le prime due lettere, in greco, della parola Cristo). Nella sinistra tiene un oggetto solitamente inteso come una croce, ma il patibulum è troppo corto. Potrebbe essere anche una spada, con chiaro riferimento al martirio del Santo. Infatti gli Atti di Tommaso parlano di morte per un colpo di lancia o di spada. L’ultima ricognizione delle ossa del Santo, effettuata nel 1984, ha dimostrato che l’individuo aveva ricevuto un fendente in pieno volto poco prima o immediatamente dopo il decesso. Se invece si vuole attribuire un significato ampiamente teologico, allora possiamo indicare “la spada dello Spirito”, che nell’ottica cristiana, diventa con la croce speculare strumento per il trionfo della forza della Parola. Iconograficamente il bassorilievo non discorda dalle caratteristiche artistiche dell’area siro-mesopotamica dei primi secoli dell’era cristiana. Significative, in particolare, sono le somiglianze con l’immagine di Aronne ritrovata nella sinagoga di Doura Europos datata al 250, e di alcune lapidi tombali, databili al I-II secolo, provenienti dall’area cimiteriale di Edessa. Nella parte bassa della lapide, inoltre, sono presenti due fori di differenti dimensioni, come quelli che si ritrovano in varie sepolture dei primi secoli del Cristianesimo, e in quella di San Paolo, al fine di introdurre balsami o fare libagioni sulla tomba del defunto. Quando si trattava della tomba di un martire, quello più ampio serviva anche per fornire reliquie da contatto.
2. la pergamena del 1259, conservata presso la biblioteca diocesana di Ortona, venne redatta a Bari dal giudice ai contratti G. Pavone, alla presenza di cinque testimoni. Un’altra pergamena dello stesso notaio, datata 1261 e riportata in un Codice barese, dimostra l’autenticità del documento, oltre la scrittura minuscola cancelleresca, le abbreviazioni ed altri elementi caratteristici del tempo storico di riferimento.
3. La reliquia di San Tommaso apostolo conservata a Bari è un osso radio sinistro, mancante nel corpo di Ortona, complementare e compatibile con lo stesso corpo. Il Cronicon barese chiarisce che un vescovo francese, cugino di Baldovino di Le Bourg signore di Edessa, nel 1102, di ritorno dalla Terra Santa e da Edessa, lasciò a Bari, presso la basilica di San Nicola, la reliquia di san Tommaso apostolo.
4. La ricognizione scientifica del 1984. Numerose sono state le ricognizioni scientifiche delle Ossa di san Tommaso, a partire dalla prima del 1575, ma la più significativa sotto l’aspetto scientifico fu l’ultima, eseguita con tutte le operazioni prescritte, durata dal 12 settembre 1983 al 25 aprile del 1986. La ricognizione ebbe inizio con l’estrazione del cranio dell’Apostolo dal busto d’argento custodito nell’urna posta al centro dell’altare della cappella dedicata a San Tommaso, proseguì con l’apertura del sarcofago e della cassetta contenente le reliquie di San Tommaso apostolo, e successivamente con l’esame macroscopico del cranio e dei reperti contenuti nell’urna metallica. La commissione era costituita dal prof. dott. Arnaldo Capelli, preside della facoltà di medicina dell’Università di Chieti, prof. dott. Sergio Sensi direttore dell’Istituto di clinica medica dell’Università di Chieti, prof. dott. Luigi Capasso docente di paleopatologia dell’Università di Chieti, prof. dott. Fulvio Della Loggia aiuto clinica medica Università di Chieti. La perizia antropologica sui resti dello scheletro doveva stabilire: -i segmenti scheletrici sicuramente riferibili al cranio di san Tommaso, – attribuzione del sesso, dell’età alla morte e dell’epoca relativa, – rilevare eventuali condizioni patologiche, – riordinare il materiale scheletrico ai fini di una migliore conservazione. Come approfondimento degli studi furono anche effettuate indagini istologiche ed istochimiche. Le reliquie ricomposte furono esposte alla pubblica venerazione e poi si procedette alle operazioni per l’intervento conservativo. I lavori si conclusero con la sistemazione delle reliquie, la chiusura del cilindro e la sua sistemazione, dopo interventi tecnici altamente specializzati sotto l’altare della cripta, dove tuttora il corpo dell’Apostolo è conservato. Tutte le relazioni dei consulenti sono pubblicate sugli Atti. Questa la sintesi conclusiva: “Questo individuo appartenne ad un soggetto longitipo, con ossatura gracile, di aspetto minuto, con statura di 160+ – 10 centimetri, di età scheletrica alla morte compresa tra i 50 e i 70 anni, affetto da una forma particolare di spondiloartrite archilopoietica con localizzazioni anche alle piccole articolazioni delle mani, portatore di un piccolo osteoma del cranio in regionefrontale e di ossa soprannumerarie lungo una delle suture della volta cranica. Detto individuo mostra le tracce di una frattura dell’osso zigomatico destro provocata da un affilato fendente poco prima o poco dopo il decesso.”
5. Le rivelazioni di Brigida Birgersdotter che nacque in Svezia, nel 1303, da famiglia aristocratica in un tempo in cui i cittadini scandinavi erano tutti cattolici. A diciotto anni Brigida fu costretta dal padre a sposare il giovane Ulf Gudmarsson ed alla coppia nacquero otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Una di esse sarà Santa Caterina di Svezia. Nel biennio 1341-1343 Brigida effettuò un pellegrinaggio in Spagna a San Giacomo di Compostela.
Dopo la morte del coniuge, Brigida diede una svolta alla sua vita, indossò l’abito cinerino del Crocifisso, simbolo di povertà e di penitenza, ed entrò in un monastero cistercense. Trascorreva il tempo nella meditazione e nella contemplazione, spesso cadeva in estasi e riceveva molte rivelazioni che poi dettava al suo confessore. Proprio in quel periodo concepì l’idea di fondare un ordine religioso. La santa le riceveva in uno stato di veglia e di estasi, a volte aveva visioni, altre volte ascoltava voci senza capire chi parlasse. Le parole in latino, ascoltate nell’estasi, rimanevano impresse nella memoria della santa, finché i suoi segretari non le avessero trascritte. Poi Brigida ricontrollava scrupolosamente lo scritto per assicurarsi che la versione fosse corretta. Le sue erano rivelazioni private, vagliate prudentemente da molti padri del Concilio di Costanza e di Basilea, che furono ritenute veritiere dai papi Gregorio XI, Urbano VI e Bonifacio IX, il papa che concesse la prima indulgenza a chiunque avesse pregato sulla tomba di San Tommaso in Ortona. Secondo la tradizione locale, Brigida visitò due volte la tomba dell’Apostolo in Ortona. Un’antica chiesa di Arielli a lei dedicata, in memoria del suo passaggio, e il cippo posto davanti alla chiesa di San Rocco, a Porta Caldari di Ortona, testimoniano ancora oggi il pellegrinaggio della santa nella nostra città. Nel 1365 Brigida si recò ad Assisi per visitare la tomba di San Francesco, dove si trattenne per qualche tempo, poi si diresse verso il sud per andare a pregare sulle tombe degli apostoli: San Tommaso ad Ortona, san Matteo a Salerno e sant’Andrea ad Amalfi. Come riporta il processo di beatificazione, citato da Antonio Politi parroco della cattedrale di San Tommaso dal 1964 al 2000, Santa Brigida giunse in Ortona ad estate inoltrata, in un periodo tra il 1365 e il 1370. Subito dopo la santa si recò sulla tomba dell’Apostolo, dove ebbe la seguente rivelazione: “Allora udì una voce che diceva Io sono il Creatore di tutte le cose e il Redentore….si deve dire e predicare in maniera molto sicura che come i corpi degli apostoli Pietro e Paolo sono a Roma,, così le reliquie di san Tommaso mio apostolo sono in Ortona. Poi le apparve Tommaso e le disse: ti darò il tesoro desiderato ormai a lungo da te. Nello stesso momento, senza che nessuno toccasse la cassa contenente le ossa dell’apostolo, apparve un frammento del dito di Tommaso, che Brigida conservò gelosamente e che oggi si conserva nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma.” Brigida morì il 23 luglio del 1373 e fu canonizzata il 7 ottobre 1391. Nel processo di beatificazione, il 31 agosto 1379, la figlia raccontò tutto quello che era successo in Ortona, dal momento che era presente anche lei. Riferì che era stata due volte in Ortona per visitare la tomba dell’apostolo Tommaso. Il sarcofago era ben chiuso, ma nonostante questo, ella vide con i propri occhi che un pezzo di osso del dito dell’Apostolo uscì dalla cassa sigillata e si pose nelle mani di Brigida. Poi raccontò che la madre aveva tanto desiderato possedere una reliquia dell’apostolo e nel primo viaggio aveva fervidamente pregato per ottenere questo miracolo. San Tommaso le era apparso e le aveva detto: “Torna qui e io soddisferò il tuo desiderio“. La figlia concluse il racconto dicendo che tutta Ortona parlava dell’avvenimento straordinario. Le rivelazioni di santa Brigida di Svezia, riferite dallo scrittore ortonese del Mille e Cinquecento De Lectis, sono state tradotte nel 2005 da Antonio Falcone.
Una informazione importante è quella relativa al fatto che il Tesoro della basilica di San Nicola di Bari dove sono custoditi moltissimi reliquiari, tra essi vi è quello contenente una Reliquia Ossea attribuita all’Apostolo Tommaso. Il reliquiario viene fatto risalire al 1602-1618 ha la forma di un braccio destro che impugna una lancia, nella iconografia antica simbolo del martirio subito dall’Apostolo, e poggia su una base contenente una reliquia della Maddalena. E’ possibile perciò che l’osso radio di Bari e le Reliquie di Ortona siano appartenute, in vita, allo stesso soggetto. La mancanza nelle Reliquie custodite in Ortona dell’osso radio sinistro rende la Reliquia portata a Bari nel 1102 compatibile e complementare con quelle portate in Ortona da Chios nel 1258. Un’ultima nota relativa ai pellegrinaggi collegati alla figura di San Tommaso che conducono al borgo marinaro di Ortona. Nel XVI secolo il missionario gesuita Francesco Saverio fece tappa nella città di san Tommaso, come attesta la sua biografia pubblicata da padre Giuseppe Massei nel 1851. In città esisteva una chiesa omonima dov’era custodito il «corpo dell’Apostolo», meta di pellegrinaggio sia per gli abitanti del luogo che per i coloni portoghesi. Il Cammino di San Tommaso è un antico pellegrinaggio iniziato nel XIII secolo e riscoperto nel XX secolo. Dopo la traslazione delle reliquie di San Tommaso ad Ortona, vari pellegrinaggi furono organizzati dalla Città Santa di Roma fino al borgo marinaro della costa teatina. Il pellegrinaggio moderno prevede anche viaggi a Santiago di Compostela e Gerusalemme, nonché al santuario di Santa Brigida, avendo la donna visitato in vita per ben due volte la tomba di Tommaso Apostolo ad Ortona e si articola anche nelle seguenti tappe: Roma-Albano Laziale-Lariano-Genazzano-Subiaco-Cappadocia-Tagliacozzo-Massa d’Albe-Rocca di Mezzo-Fontecchio-Capestrano-Torre de’ Passeri-Pretoro-Orsogna-Crecchio-Ortona. Nel 1933 le ferrovie dello Stato dovettero approntare treni speciali diretti a Ortona per far fronte alla massa dei pellegrini.
Continua il viaggio straordinario alla scoperta delle 305 Eccellenze dei 305 Comuni d’Abruzzo. Oggi Abruzzomania, con la rubrica Eccellenze d’Abruzzo, presenta la sua 53° Eccellenza, quella del comune di Bugnara in provincia di L’Aquila con il suo magnifico borgo fortificato immerso nei Parchi d’Abruzzo. Ricordo che di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione, per cui ne mancano all’appello 252, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo per mettere in mostra la sua eccellenza speciale ed avere il suo meritato riconoscimento.
Bugnara è uno splendido borgo fortificato che sorge nel cuore dei parchi d’Abruzzo perché la zona in cui si trova è circondata da tre delle quattro aree protette che hanno fatto attribuire all’Abruzzo il nome di “Regione Verde d’Europa”: il Parco Regionale Sirente-Velino a nord, il Parco Nazionale della Majella ad est e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio eMolise a sud-ovest. L’origine del nome è sconosciuta, tuttavia alcune ipotesi formulano che il termine Bugnara derivi da “Bonae Ara” indicante un altare dedicato alla dea Bona o Cerere, tempio trovantesi verosimilmente sotto la chiesa della Madonna della Neve sempre a Bugnara, visto che sotto questa chiesa vi è un tempio pagano con pavimento in opera spicata, ove è stata portata alla luce una lapide con delle decorazioni che raffigurano delle sacerdotesse che stanno compiendo un rito. Un’altra ipotesi vuole Bugnara derivante da “Vignae Ara” per via delle coltivazioni di vigneti nei dintorni della cittadina abruzzese.
Il borgo medievale fortificato domina dall’alto tutta la Valle Peligna e l’abitato è quasi completamente concentrato intorno al suo centro storico posto ai piedi della Rocca, dominata dal Castello Ducale e si trova su una collina a 580 m. sul mare, ai piedi del Colle Rotondo nei pressi del fiume Sagittario.
Camminando per le strade di Bugnara si notano gli elementi di portoni, balconi, architravi, ringhiere, tutti piccoli indizi di un lontano passato, per arrivare infine alla cima cioè al Palazzo Ducale. Il paese, infatti, ha la tipica forma a triangolo caratteristica del Medioevo, con le case tutte rigorosamente di pietra attaccate l’una all’altra quasi a volersi dare reciproca protezione ed i vicoli stretti e ripidi che, salendo verso l’alto, ed erti e salgono verso l’apice in cui vi è la rocca, al vertice della figura geometrica da cui domina il Palazzo Ducale. Noto come il “Castello” ed anche “Rocca dello Scorpione”, è datato intorno al XII secolo. La sua costruzione si deve alla nobile famiglia Di Sangro a cui era stato concesso il feudo di Bugnara e che lo abitò fino al 1500.
Il Palazzo, trovandosi nella parte più alta del paese, sembra delimitare il confine tra il centro abitato, compatto e poco esteso, e i vasti spazi aperti della montagna, regno incontrastato di pastori e greggi. Ancora oggi sono visibili le tracce degli antichi tratturi, utilizzati fin dall’epoca romana, che nel periodo della transumanza venivano ininterrottamente calpestati al ritmo scandito dalle stagioni poiché la pratica dell’allevamento ovino rappresentava il sostegno principale dell’economia, della società e della cultura del paese. Nelle zone adiacenti vi sono dei tratturi utilizzati con una certa frequenza nei tempi passati.
Monumenti interessanti di Bugnara sono anche la chiesa della Madonna del Rosario costruita tra il XVI ed il XVII secolo in stile barocco con fregi e dorature che all’interno conserva affreschi sulla volta e stucchi cinquecenteschi e la chiesa della Madonna della Neve conosciuta anche come chiesa delle Concanelle. La tradizione vuole che questa sia stata edificata sui resti di un tempio romano dedicato alla dea Cerere, venerata dalle genti peligne quale divinità preposta alla fecondità della terra, a cui si facevano offerte di grano per celebrare la fine del raccolto e per propiziare la ricchezza di quello futuro.
Non a caso il paese ospita “Romantica”, il festival internazionale dedicato all’arte floreale. Nel mese di agosto i migliori fioristi di tutto il mondo si ritrovano e creano delle vere e proprie opere d’arte per valorizzare gli angoli più suggestivi del paese. Realizzano abiti e gioielli floreali che modelle del posto indossano durante la serata finale della manifestazione, che si conclude in una “Romantica” notte bianca con musica, danze, cibo e tanto altro.
Le prime notizie documentate sul borgo sono rilevabili dal VI secolo anche se alcuni ritrovamenti denotano che il paese è abitato da molto prima. Nell’anno 1000 viene costruita la chiesa della Madonna della Neve. Nel 1079 il borgo risulta feudo di Simone di Sangro ed il feudo rimane a questa famiglia fino all’estinzione del casato nel 1759 con Vittoria Mariconda di Sangro. Nell’XI secolo si ebbe la costruzione del palazzo ducale per mezzo della medesima famiglia. Sempre i di Sangro ricostruirono la chiesa della Madonna della Neve nel 1361. Nel 1442 venne istituita la Regia Dogana della Mena delle Pecore di Foggia che portò a Bugnara lauti introiti visto che dipendeva dal pascolo. Nel 1706, nel 1933 e nel 1984 Bugnara fu interessata da gravi terremoti, in particolare quello del 1984 rese inagibili le chiese del borgo per parecchio tempo.
Infine una nota meritano alcuni palazzi gentilizi tra cui si segnalano il già citato Palazzo Ducale Di Sangro – Rocca dello Scorpione o Castello ducale medievale costruito nel XII secolo dalla famiglia di Sangro, che lo abitò fino al 1500. Il palazzo Corrado, il più grande di Bugnara, costruito nel XVIII secolo sopra case preesistenti in tipico stile tardo barocco romano e Palazzo Papi risale al XVII secolo, nel 1732 è stato comprato dalla famiglia Papi, da cui il nome.