Non ci poteva essere migliore occasione del periodo natalizio per celebrare una delle più importanti Eccellenze d’Abruzzo, la Cappella Sistina della Maiolica che è possibile ammirare nello splendido borgo delle ceramiche di Castelli e ricordo che … di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione e mancano all’appello 285 Eccellenze, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo, anche il più piccolo.
“La chiesa castellana di San Donato, nata anticamente come cona, ossia chiesetta di campagna, sorge appena fuori dal borgo abruzzese, su una leggera altura e conserva questo unicum nell’ambito del patrimonio ceramico italiano. L’edificio venne dedicato alla Madonna del Rosario nel XV secolo, e fu ampliato agli inizi del Seicento fino a prendere la forma attuale.
Foto Centro Turistico TREe
L’intradosso di questa piccola chiesa è un importante soffitto maiolicato, che per la sua singolarità è stato definito da Carlo Levi “ la Sistina della Maiolica”, mentre per lo studioso Ashmolean Musuem di Oxford, Timothy Wilson, rappresenta “una delle imprese più ambiziose della maiolica italiana sul finire del Rinascimento”.
Foto Centro Turistico TREe
Il soffitto si deve agli abitanti di Castelli che lo realizzarono per devozione, come attesta una scritta latina dipinta su una sequenza di mattoni, che recita: “le genti della terra di castelli fecero questo soffitto ad onore di Dio ed allo stesso tempo a perpetua memoria della Beata Vergine Maria”.
Foto Centro Turistico TREe
I maiolicari castellani riuniti in una confraternita attuarono questo progetto per produrre un opera che tramandasse ai posteri una testimonianza dell’alta qualificazione raggiunta dalla loro categoria. Realizzarono così una vera e propria volta maiolicata composta da oltre 800 mattoni recanti le date 1615, 1616, 1617.
Foto by Centro Turistico TREe
La struttura del grande soffitto è costituita da travi che dividono le capriate spioventi in comparti dove sono allineate file di cinque mattoni, trattenuti da travicelli. Il nuovo soffitto andò a sostituirne uno più piccolo e antico, risalente al cinquecento. Quest’ultimo soffitto, era ugualmente costituito da un pregevole mattonato maiolicato che, in tale circostanza, fu in gran parte riutilizzato per pavimentare un’area posta all’interno della nuova chiesa.
Per lungo tempo i mattoni cinquecenteschi utilizzati per detta pavimentazione furono sottoposti al calpestio e vennero danneggiati. Nel secolo scorso furono prelevati dalla chiesa e trasferiti nel Museo delle Ceramiche di Castelli, dove sono attualmente custoditi ed esposti al pubblico. Il soffitto, a causa delle deformazioni intervenute nelle travature, dovette perdere diversi mattoni, ma è stato oggetto di un radicale restauro nel 1968, con il consolidamento e la sostituzione delle strutture lignee. In tale occasione sono stati anche sostituiti i mattoni perduti o deteriorati, ma alcuni esemplari originali furono depositati nella locale Raccolta Civica.
La decorazione del soffitto è caratterizzata dalla presenza di temi geometrici e stereometrici, dal ricercato effetto di trombe-l’oeil, a rombi, a triangoli, a lacunari, a rosoni, con motivi radiali e poi ricchi ornati, girali a foglie d’acanto, festoni floreali e racemi di impronta cinquecentesca, a cui seguono la decorazione vegetale ed animal i apotropaici: volatili,cani da caccia, levrieri, cavalli in corsa, piccoli cervi, serpenti e lepri.
Abbondano poi i motivi cari al repertorio decorativo dei ceramisti: il nodo di Salomone, il sole dai raggi taglienti e serpentiformi, il raro partito ornamentale a treccia, ed ancora gli emblemi nobiliari delle famiglie: D’Aquino, Brancaccio, un vescovo di casa di Sangro. Suggestiva e di rara forza espressiva è la decorazione figurata per la ricchissima serie di immagini di personaggi maschili e femminili che costellano il soffitto, si tratta di ritratti dal vero, dovuti a ceramisti dal forte talento di caratterizzatori, veri e propri pittori di fisionomie.”
“Perché questo meraviglioso borgo è patria della ceramica? La nascita della ceramica a Castelli, la cui tradizione si è sviluppata già inepoca etrusca,si deve soprattutto alle caratteristiche naturali del territorio, in particolare l’abbondante presenza di cave d’argilla, boschi di faggio per la legna e i forni, i corsi d’acqua, giacimenti di silice. Favorita sicuramente dalla presenza dei monaci benedettini che producevano suppellettili di uso quotidiano. I primi reperti datati risalgono al XV secolo, ma in realtà è impossibile dire con esattezza quando la produzione ceramica sia sorta e si sia affermata. E’ dalla seconda metà del 1500 che questa arte vive il suo periodo di massimo splendore. La ceramica divenne così l’unica vera economia, tanto che ancora oggi la maggior parte della popolazione risulta dedita a questa nobile arte.”
A volte la polvere, quella che il vento trascina nel mondo, quella che attraversa il tempo senza mai scomparire, incrociando casualmente luoghi e generazioni, porta con se memorie di storie vissute che sono in grado di lasciare il segno nella vita di chiunque incontri per strada. E, se invece di esserne infastiditi, si rimanesse in silenzio ad ascoltare la sua voce, essa sarebbe in grado raccontarci ciò che di straordinario è stata in grado di vedere.
Così come ha provato a fare John Fante, “abruzzo-americano” di seconda generazione, nato negli Stati Uniti d’America (Denver, 8 aprile 1909 – Los Angeles, 8 maggio 1983), in grado di percepire le parole della polvere e riuscire a tradurle in un’opera letteraria fuori dal tempo. Diventando, così, una delle comete più luminose della letteratura americana e mondiale.
Il suo romanzo più importante, “Chiedi alla Polvere“, non a caso, durante i primi anni della sua vita, fu snobbato dalla critica e dimenticato tra la polvere degli scaffali. E’ stato solo grazie all’intervento di un’altro grande scrittore, Charles Bukowski, che ritrovò per caso, in una biblioteca, una copia impolverata delle avventure di Arturo Bandini, l’alter ego del nostro abruzzese, innamorandosene e facendolo conoscere al mondo: “Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino“. Da quel momento in avanti i romanzi di John Fante sono stati pubblicati in tutto il mondo.
L’unica maniera di conoscere e comprendere un personaggio così controverso e irrequieto come questo scrittore, il narratore più maledetto del mondo, è proprio quello di “chiedere alla polvere“. La polvere calpestata dai migranti, capace di riportare indietro il tempo, giorno in cui in Abruzzo il padre, Nicola Fante, per sfuggire al freddo e alla miseria della sua terra, ha deciso di attraversare l’oceano per lasciare le montagne della Majella e raggiungere quelle quasi simili del Colorado.
Con la madre, Maria Campoluongo, fervente cattolica, John Fante è sempre riuscito a trovare rifugio e conforto per affrontare con coraggio la misera della sua esistenza:
“La cucina: il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna d’erbe magiche, rosmarino e timo e salvia e origano, balsami di loto che recavano sanità ai lunatici, pace ai tormentati, letizia ai disperati. Un piccolo mondo venti-per-venti: l’altare erano i fornelli, il cerchio magico una tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano, quei vecchi bambini richiamati ai propri inizi, col sapore del latte di mamma che ancora ne pervadeva i ricordi, e il suo profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo cattivo che si perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva la sua covata dai lupi di fuori…” (La confraternita dell’uva)
Casa natale del padre a Torricella Peligna (foto by Avvenire)
Con il padre, invece, non è mai riuscito ad avere un rapporto sereno. Da sempre una figura assai difficile con cui confrontarsi, talmente amato da essere menzionato, nei suoi scritti, come “Il Dio di mio padre”, e allo stesso tempo odiato per la vita dissoluta che conduceva, uomo violento, aggressivo e autoritario che, un giorno, decise addirittura di abbandonarlo quando era solo un giovane ragazzo. Ecco come viene descritto, con il suo Alter Ego Svevo Bandini, in una delle sue opere:
“Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustoso. Si chiamava Svevo Bandini (…). Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava (…). Anche da ragazzo, in Italia, in Abruzzo, detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella città di Rocklin, Colorado. (…). Le montagne c’erano anche in Italia, simili a bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra.” (Aspetta primavera, Bandini)
E’ stupefacente vedere come, ancora oggi, i familiari rimasti in Italia che si possono incontrare passeggiando tra i vicoli del suo paese d’origine, Torricella Peligna, ricordano le minacce di morte che il padre fece nei suoi confronti se mai fosse tornato a casa (proprio come racconta il suo cugino carnale in questo video).
L’Abruzzo di John Fante è un luogo che, per quanto lontano e mai visitato realmente, è la garanzia di radici, di gente che a prescindere dal tuo ritorno, è rimasta ad aspettarti, come effettivamente è stato. Torricella Peligna è il luogo della sua mitologia familiare. Un mondo popolato da luoghi e personaggi leggendari che il padre gli raccontava quando era ancora bambino.
Torricella Peligna (foto by Abruzzo news)
Così come San Rinaldo di Fallascoso e il suo eremo,dove gli abitanti si recano ancora oggi con devozione e si racconta di incredibili guarigioni, o della Fonte delle Sese (o di Sant’Agata) dove le donne partorienti si vanno ad abbeverare e si lavano, attraverso riti millenari, per far si che ricevano la grazia di produrre il proprio latte materno in abbondanza. Luoghi ed eventi leggendari che in America, una società così moderna, nemmeno ci si sogna di avere.
Fonte delle Sese (foto by Sangro Aventino turismo)
Nel romanzo “Aspetta primavera Bandini“, l’Abruzzo diventa l’argomento di un divertente e divertito dialogo tra Svevo, l’Alter Ego del padre, e una ricca e colta vedova americana presso la quale doveva trovare lavoro:
“E così lui era italiano. Splendido. (…). Doveva sentirsi orgoglioso delle sue origini. Non sapeva anche lui che la culla della civiltà occidentale era proprio l’Italia? Aveva mai visto la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Michelangelo, l’azzurro del Mediterraneo. E la Riviera? No, non li aveva mai visti. Le disse con parole semplici che era abruzzese, e non si era mai spinto a nord, nemmeno a Roma. Aveva lavorato duro, fin da ragazzo. Non aveva avuto tempo per nient’altro. L’Abruzzo! La vedova sapeva tutto. Ma allora aveva sicuramente letto le opere di d’Annunzio, era abruzzese anche lui. No, non l’aveva letto, quel d’Annunzio. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai letto. Sì, sapeva che quell’uomo importante era della sua provincia. La cosa gli faceva piacere, sentiva gratitudine per d’Annunzio. Finalmente aveva trovato un terreno comune, ma con suo grande sconforto s’accorse di non avere nient’altro da dire sull’argomento.”
Ma proprio come il padre, un idolo e allo stesso tempo una disgrazia, anche l’Abruzzo si presenta come un meraviglioso miraggio per cui essere fieri e, allo stesso tempo, come un ingombro di cui sbarazzarsi. Su John Fante, infatti, incombe tutto il peso del pregiudizio nei confronti degli Italiani, una polvere che difficilmente si riusciva a togliere dai propri vestiti, neppure quando li si lavava per bene: mangia spaghetti, selvaggi ubriaconi, violentatori e assassini, mafiosi, sporchi come maiali. È un tema caro a Fante, soprattutto trattato nella sua raccolta di racconti “Dago red“. Una vicenda umana che sembra attualissima in cui sta dentro tutta la speranza e il dolore dei migranti. L’odio del razzismo e la volontà di inclusione di quella misera comunità italiana, salpata con pochi stracci polverosi riposti nella valigia di cartone e che una volta sbarcata in America andava alla ricerca di sogni una vita migliore. La forza per la ricerca di un successo letterario, da parte dello scrittore abruzzese, probabilmente, proviene dalla voglia di un riscatto sociale in grado di sconfiggere il pregiudizio che su di lui incombe in quanto italiano.
Mediateca John Fante a Torricella Peligna (foto by qualche riga d’Abruzzo)
Un successo ottenuto con estrema fatica, quasi insperata. John Fante di polvere ne ha dovuta mangiare fin troppa, e ci si è dovuto sporcare persino le sue preziose mani di scrittore, prima ancora che i suoi capolavori venissero riconosciuti. Una vita miserabile che non sembra finire mai:
“Ho fatto un sacco di lavori al porto di Los Angeles perché la nostra famiglia era povera e mio padre era morto. Il mio primo lavoro, poco dopo la maturità, fu quello di spalatore di fossi. Di notte non potevo dormire per via del mal di schiena. Stavamo facendo uno scavo in un terreno, non c’era neanche un po’ d’ombra, il sole picchiava dall’alto di un cielo senza nuvole, e io giù in quella buca a scavare insieme con due cani da valanga che avevano una vera passione per lo scavo, sempre là a ridere e a raccontarsi barzellette, ridendo e fumando un tabacco puzzolente…” (La strada per Los Angeles)
Il riconoscimento dovuto a John Fante, però, arrivò molto tardi e quasi a ridosso della sua morte. In questi ultimi anni, però, il suo nome è stato affisso sulle pareti della Hall of Fame dei più grandi scrittori d’America. Una carriera riconosciuta anche nel Cinema hollywoodiano attraverso l’adattamento cinematografico di alcuni dei suoi romanzi più importanti, tra i quali il film cult “Chiedi alla Polvere” (di cui qui sotto è possibile vedere il trailer)
Il nostro VIP statunitense di origini abruzzesi, però, a Torricella Peligna non è mai tornato davvero, nonostante quando, la primavera di sessant’anni fa, sbarcato in Italia per un lavoro di sceneggiatore in un’opera cinematografica, ci arrivò vicino. Così come racconta il suo biografo Stephen Cooper «Fante parcheggiò nella piazza del paese, ma immediatamente obbligò l’autista a fare marcia indietro, preso dal panico di calpestare gli stessi posti in cui aveva camminato il padre». Un paese mitologico che desiderava vedere ma che, difronte alla realtà che poteva apparire davanti ai suoi occhi adulti, alla polvere dei passi lasciati dal passato del padre, avrebbe riaperto una dolorosa cicatrice mai rimarginata.
Da un po’ di tempo a questa parte, in compenso, i suoi concittadini abruzzesi lo fanno simbolicamente “tornare” ogni anno, durante il mese di Agosto, con il John Fante Festival
Oggi al centro dell’attenzione delle Eccellenze d’Abruzzo c’è il borgo medievale di Alfedena, nome che deriva dall’antichissima Aufidena, e ricordo che … di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione e mancano all’appello 286 Eccellenze, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo, anche il più piccolo.
Un borgo, Alfedena, segnato nei secoli scorsi, da una transumanza sui generis riconoscibili da due tipi di movimenti più o meno stanziali, la stagione della pietra e la stagione del fieno. Per cui quando c’era da andare in campagna si andava in campagna, e quando il tempo non lo permetteva più ci si riversava sulle vicine cave per recuperare i materiali che avrebbero significato un altro tipo di ricchezza, altrettanto faticosa ma utile a mettere in opera strade e vicoli del paese, portali delle proprie abitazioni e poi, una volta raggiunta la maestria totale nella particolarissima arte dell’estrazione e della posa dei selci, in viaggio verso nuovi posti da decorare con le proprie “teorie” di pietre incasellate una dopo l’altra.
Alfedena è così diventata famosa nel mondo, forse un po’ meno in Abruzzo, come il paese dei Selciatori. Infatti è da questo grazioso borgo di poco meno di mille anime posizionato lì dove l’Alto Sangro diventa Parco Nazionale d’Abruzzo, che si tramanda questa importante tradizione, la lavorazione della pietra: selci, stipiti, scalette esterne, che si possono osservare nelle stradine del paese e nelle strade del centro storico lastricate esse stesse dai sampietrini. Borgo da dove sono partiti gli uomini migliori chiamati ad edificare e ornare le strade di tante città italiane, un sampietrino dopo l’altro, compresa Roma e Piazza San Pietro in Città del Vaticano.
Per testimoniare l’importanza della figura del selciatore, nella Villa Comunale è stato realizzato il monumento al selciatore dallo scultore Sandro Pagliuchi. Ogni quartiere del borgo ha mantenuto sulla pavimentazione disegni e composizioni di pietre che da centinaia di anni sono lì ad indicare la postazione in cui vanno accessi i falò durante la festa di Sant’Antonio Abate a gennaio. Villa Comunale che fu definita Orto Botanico dall’Università di Napoli alla fine del XIX secolo, per la rilevante presenza di varietà botaniche.
Foto monumento al selciatore
Alfedena mantiene ancora intatti alcuni tratti salienti della sua storia medievale, con ancora visibili le sue antiche porte, i resti della torre ottagonale Normanna e del castello medievale del principe Caracciolo di Cellammare e la Torre Normanna del X-XI secolo e la chiesa dei Santi Pietro e Paolo nel cuore del suo centro storico, con facciata di ispirazione romanica, costruita nel XIII secolo e nel 1902 dichiarata monumento nazionale.
Foto antica porta
Foto torre normanna
Foto chiesa dei Santi Pietro e Paolo
Due curiosità prima di andare avanti, è conosciuta anche come paese dei Dottori, perché in passato vi era un elevato numero di laureati rispetto al numero di abitanti e l’albero monumentale che ha più di 130 anni di vita.
Albero monumentale
Perché se inizialmente i selciatori di Alfedena lavoravano “semplicemente” all’estrazione della pietra nelle cave più vicine al paese, di lì a poco un intero pezzo di comunità si trasferirà nella zona dell’Agro Romano, all’altezza del ventesimo chilometro della Casilina, dove fonderanno la frazione di Laghetto, che ancora oggi rappresenta il più importante centro industriale di Monte Compatri, nelle cui vicinanze sorgevano le importanti cave di basalto che hanno assicurato la fornitura eccezionale per gran parte delle strade della Capitale. È da lì che ancora ogni estate tornano tanti degli emigranti di seconda e terza generazione, quei figli o nipoti dei selciatori di Alfedena che purtroppo sono ormai scomparsi senza che nessuno sia stato in grado in passato di raccoglierne le testimonianze.
E grazie a Gaetano Di Filippo, fotografo documentario e giornalista, uno dei promotori culturali della ricca offerta di eventi e iniziative in programma d’estate in paese, che siamo a conoscenza della Società Cooperativa Selciatori di Alfedena fondata proprio a Monte Compatri il 14 dicembre del 1890 dai primi operai specializzati giunti a Roma dall’Abruzzo, uomini di un’altra epoca, simbolo identitario di un’intera comunità.
Ma Alfedena è anche antico centro sannitico, con l‘acropoli e la vasta necropoli italica di origine sannitica identificabile con l’antico centro di Aufidena da cui assume il nome. Esplorata dagli archeologi a partire dal 1882 presenta notevoli somiglianze con altri due siti alto sangrini, di Opi e di Barrea e tali analogie hanno permesso agli esperti di parlare di una vera e propria facies culturale dell’Alto Sangro.
Le circa 2.000 sepolture rinvenute, databili tra il VII secolo a.C. e l’inizio del III secolo a.C., hanno restituito numerosi reperti, alcuni dei quali conservati presso il Museo civico aufidenate intitolato all’archeologo Antonio De Nino. Il sito fortificato del Curino, posto a monte della necropoli, faceva probabilmente parte di un vasto sistema funzionale di roccaforti e costituiva un punto di controllo sul fondovalle. Molti reperti provenienti dalla necropoli furono purtroppo trafugati o distrutti dalle truppe di occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale …
… ma se in un solo borgo di 800 anime troviamo tutto questo ben di Dio, quante meraviglie possiede l’Abruzzo? Tante, che noi di Abruzzomania, insieme al lavoro svolto in collaborazione con l’Associazione TREe abbiamo censito e selezionato accuratamente, tutte da vedere, tutte da gustare, tutte da ammirare … quante eccellenze, quante esperienze, quante emozioni!
Abruzzo, grazie di esistere!
Fonte: blog www.qualcheriga.it di Gianluca Salustri
“San Giuann che svilupp lu cervelle, mentre Sante Vincenze fa passà la febbre, male di cocce e male di vedell”.
Abruzzomania oggi vi presenta la 18° Eccellenza d’Abruzzo: l’Abbazia di San Giovanni Battista e San Vincenzo, una delle chiese più misteriose d’Abruzzo, la chiesa del “santo consumato“, San Vincenzo considerato in tempi passati taumaturgo in grado di far guarire da malattie in particolare dalla febbre alta, consumato da tanta devozione, che porta i devoti a grattare con un piccolo coltellino un po’ di gesso dalla base della statua che mettono in tasca, statua appunto consumata da questa curiosa usanza popolare fatta per proteggersi dai malanni. Tutto ciò si svolge a Turrivalignani, luogo ricco di misteri ed enigmi non ancora svelati.
Ricordo che … di eccellenze abruzzesi ne abbiam censite ben 305, una regina per ognuno dei 305 comuni della nostra regione e mancano all’appello 287 Eccellenze, tutte già selezionate! Ogni paese d’Abruzzo merita di partecipare a questo concorso di Eccellenze d’Abruzzo, anche il più piccolo.
Questa abbazia ha una strana e misteriosa storia, infatti non esistono, al momento, notizie storiche sulla fondazione e i vari avvenimenti legati alla Chiesa di Turrivalignani, e di solito viene fatta risalire per motivi di stile architettonico alla prima metà del XII secolo.Seconda stranezza, è visitabile solo due giorni all’anno, la prima domenica dopo Pasqua per i festeggiamenti in onore di San Vincenzo e fors’anche il 1 novembre, essendo vicino al cimitero comunale, info da verificare quest’ultima. Terza stranezza: vedasi i link presenti sul web per acquisire informazioni dal sito della provincia e dall’archivio fotografico d’Abruzzo che non producono nessun risultato trovato! Una delle poche certezze dovrebbe essere il nome, che sarebbe frutto dell’unione del titolo della chiesa superiore di S. Giovanni Battista, con quello della cripta di S. Vincenzo.
foto by facebook.com
Un edificio quello dell’Abbazia di San Giovanni Battista e San Vincenzo ricco di incisioni e di antichi simbolismi. Negli stipiti interni del portale si scorgono diverse stelle a cinque punte, un piccolo Fiore della Vita, fiore a sei petali inserito in un cerchio, rilevato anche a San Clemente. Come se il costruttore epocale avesse voluto lasciare un marchio di fabbrica, e poi ancora molti sandali del pellegrino, infatti come testimonianza e firma del loro passaggio, i pellegrini incidevano la forma del sandalo accompagnati, in questo caso, anche da uno stemma nobiliare, forse per una visita importante.
Poi, segni di orme e la Croce con le stelle a cinque punte attribuite a rappresentare il passaggio di tanti pellegrini. Segni incisi rappresentano stemmi di antiche famiglie nobili che andavano a invocare il santo, e un disegno in carboncino mostra due cavalieri con una lunga asta che termina con una croce. Erano forse Crociati?
A Turrivalignani e in alcune chiese italiane, ne troviamo molti distribuiti sul muro perimetrale esterno. Questi segni rappresentano un enorme valore, perché costituivano un diario accurato di quanto accadeva in determinate epoche.
La cripta, l’ambiente più antico dell’edificio, è dedicata al culto di San Vincenzo Martire che viene raffigurato dalle fattezze giovanili e con indosso abiti monastici, con un pennello nella mano destra e un libro nella sinistra, arroccato su un altare rudimentale retto da quattro colonne. Per tradizione dopo aver qui pregato, i fedeli con gesto veloce e deciso asportavano dalla statua piccole scaglie di gesso e colore per poi conservarle nelle loro tasche. Un rituale che preserverebbe dalla febbre alta, in quanto San Vincenzo sapeva miracolosamente dispensare guarigioni.
Per tale gesto Vincenzo è stato identificato come il “santo consumato”, perché continuando a “grattarlo via” di esso rimane sempre meno, quasi fosse metafora di Cristo, del quale in ogni Messa portiamo con noi il nostro personale frammento del Suo corpo sotto forma di ostia consacrata.
In prossimità dell’altare, due colonne differiscono dalle altre per un pesante motivo a “T” ripetuto quattro volte, che emerge dalla loro struttura. E’ un mistero quello delle grandi lettere T in quanto a prima vista potrebbe apparire un elemento decorativo, ma è un’ipotesi da escludere dato che non arrivando fino al capitello, si interrompe a tre quarti di altezza, creando in tal modo un elemento di disturbo più che di abbellimento. Grandi e ripetute T, nodi di Salomone, fiori della vita e stelle a 5 punte, mura che parlano attraverso simboli dalla lettura universale che comunicano quanto l’edificio sia esotericamente importante.” Si tratta sicuramente dell‘aspetto misterico più rilevante di questo edificio che tentativi di interpretazione non hanno svelato. Avrà qualcosa a che fare con i Templari?
Una chiesa importante, ricca di misteri e quindi ancora tutta da scoprire, ergo l’appuntamento per gli Abruzzomaniaci è per la prima domenica dopo Pasqua, giorno certo della sua apertura che ci consentirà di visitarla come merita!
Fonte: documenti scritti da Roberta Di Renzo archeologa abruzzese esperta di beni culturali
Eremo di S. Bartolomeo in Legio (foto by Trekking.it)
L’Abruzzo è il territorio che, insieme al Tibet, ha il maggior numero di concentrazione di Eremi al mondo, tutti di spettacolare bellezza. Le montagne, l’inaccessibilità dei sui luoghi, la conformazione della sua natura e la grande vocazione ascetica dei suoi abitanti hanno costituito gli elementi fondamentali per il loro sviluppo.
Ma perché considerarli patrimonio, non solo della nostra regione, ma del mondo intero? Ecco i nostri 3 motivi:
1. Gli Eremi abruzzesi hanno una caratteristica tutta loro: si trovano nei luoghi più impensabili e all’interno di paesaggi naturali straordinari!
Papa Celestino V, ad esempio, amava costruirli negli anfratti naturali delle rocce, di cui ricordiamo l’Eremo di San Bartolomeo in Legio a Roccamorice, all’interno dell’incantevole scenario dei Canyon del Vallone Santo Spirito, e a ridosso di rupi rocciose che si affacciano nel vuoto, come ad esempio il Santuario della Madonna dell’Altare a Palena dove è sconsigliabile, per chi soffre di cuore, voltarsi dalla finestra. Ma non disdegnava nemmeno di edificarli sulle cime dei monti, tanto che ancora oggi vengono spesso scambiati, dagli alpini, con dei veri e propri rifugi.
Eremo/Santuario della Madonna dell’Altare (foto by Abruzzo Turismo)
Nel caso del Santuario di San Venanzio a Raiano, invece, ci troviamo difronte ad un luogo di culto edificato tra una sponda e l’altra di un fiume. Il ponte, infatti, in questi casi, non veniva inteso solo come mezzo per attraversare fisicamente un corso d’acqua ma anche come simbolo utilizzato per ricordare a tutti che, per riuscire a transitare dalla vita terrena alla vita eterna, è necessario, durante il cammino della propria esistenza, trovare il coraggio di affrontare i propri limiti. Essi però, sono come un fiume in piena che, per la paura di affrontarli, possono sviare il nostro cammino. Solo con l’ausilio di un ponte spirituale, ossia con il coraggio della fede, è possibile il loro superamento e un graduale passaggio ad una dimensione spirituale superiore. Proprio come San Venanzio da Camerino, che si dice abbia soggiornato in questo suggestivo luogo, amava fare nella sua vita ascetica.
Eremo/Santuario di S. Venanzio (foto by Terre colte d’Abruzzo)
2. Le tipologie di Eremi che si possono incontrare nella nostra regione sono innumerevoli e sono una magnifica espressione dell’ingegno umano: a volte ci si può imbattere dinnanzi a semplici altari innalzati nelle cavità rocciose, altre volte a chiese o a santuari, e può succedere addirittura di ritrovarsi difronte complessi monastici interamente costruiti nella roccia. Così come il vecchio Monastero di Sant’Angelo a Ripe costruito all’interno di una grotta che si suddivide in piccoli cunicoli e che i monaci benedettini seppero straordinariamente sfruttare per disporvi le loro celle e le stanze funzionali alla vita e alla preghiera. Nel punto più ampio, dove la roccia si apre in un ampio salone, è ancora oggi visibile la cappella dedicata a San Michele Arcangelo, raggiungibile attraverso antiche scale in pietra e stretti passaggi. Ma non vi spaventate se, una volta osservato l’eremo da lontano, per via delle sue tre aperture, assuma la fisionomia di un teschio. Che fosse stato un monito per i fedeli che vi passavano davanti?
Eremo/Grotta di Sant’Angelo a Ripa (foto by Korazym)Altare di S. Michele Arcangelo, Grotta di Sant’Angelo a Ripe (foto by Italiavirtualtour.it)
3. In Abruzzo gli eremi custodiscono l’espressione religiosa, culturale, storica, antropologica e artistica a partire dall’uomo primitivo all’uomo contemporaneo. Fin dalla Preistoria, infatti, le grotte e le insenature rocciose hanno da sempre attratto l’essere umano. La loro assonanza con l’utero e il ventre materno, dal quale si nasce, aiutava a tornare in contatto con la propria “generatrice”, in questo caso, la madre terra. Entrando nelle cavità naturali si aveva, quindi, la possibilità, se in grado di affrontare la paura del buio e dei suoi pericoli, di entrarvi per uscirne “rinnovati”. Lo stesso fascino che continuarono a percepire, in questi luoghi, anche gli Eremiti cristiani. Qui, infatti, anche grazie alla natura che li circondava, essi hanno avuto, e continuano ad avere, la possibilità di isolarsi dal resto del mondo per affrontare la paura delle proprie fragilità personali e sentirsi in intimità con il loro Creatore per rinascere a “vita nuova”. Ma nelle profondità della propria esistenza, e in quelle che portano al buio sotterraneo delle grotte, gli “inferi”, è sempre in agguato il diavolo. Ecco perché il culto di questi eremi è spesso dedicato a San Michele Arcangelo, il suo principale nemico.
Ancora oggi è possibile ammirare, a Sulmona, nell’Eremo/Monastero di Sant’Onofrio a Maiella, il passaggio storico religioso e artistico a cui ci siamo riferiti prima, osservando tutti i suoi elementi in un unico luogo: dalle Pitture rupestri degli uomini primitivi all’interno della caverna, al Tempio Romano di Ercole Curino, fino ad arrivare alle pitture medioevali e barocche.
Gli eremi d’Abruzzo, di cui abbiamo parlato solo brevemente, quindi, sono uno scrigno di storia, cultura, antropologia, religione, arte, ingegno umano e valore paesaggistico di immensa bellezza. Vogliamo deciderci, allora, di farli finalmente riconoscere nella Lista Unesco come Patrimonio dell’Umanità?
Scopri gli altri “Patrimoni abruzzesi dell’Umanità” negli articoli precedenti: La costa dei Trabocchi
Oggi Abruzzomania è un po’ polemica, ma a fin di bene. Una domanda sorge spontanea: perché in Abruzzo non abbiamo operatori turistici geniali e visionari? Forse noi più che fare un bando, come fatto a Riccione, per fornire servizi agli utenti invernali dovremmo fare un bando per cercare imprenditori geniali e visionari … non sto scherzando, sono convinto che esistano in Abruzzo imprenditori con queste caratteristiche, ma sono assopiti e rinchiusi in una sorta di caverna, si, come nel mito di Platone, una caverna che fa credere loro che oltre il turismo che si fa non si possa andare, che quella che vivono e ci fanno vivere sia l’unica realtà turistica possibile. E allora politici illuminati e spero ce ne siano altrimenti dobbiamo fare prima un bando per trovare loro e poi un bando per far uscire fuori gli imprenditori turistici illuminati, fate questo bando, provochiamo il mercato e vediamo cosa succede! Nel frattempo, mentre noi pensiamo ai bandi per politici e imprenditori del turismo illuminati, osserviamo cosa succede a Riccione:
“In spiaggia come se fosse estate, con lettini, docce e zone per il relax. Sarà inaugurato domenica, a Riccione, il primo stabilimento balneare aperto durante la stagione invernale.
Come riporta ilrestodelcarlino.it, i gestori di ‘Spiaggia del Sole 86-87’, questo il nome della struttura, hanno deciso di partecipare a un bando del Comune per fornire un servizio ai tanti utenti che, soprattutto nei weekend, vanno al mare anche durante i mesi freddi. Tra questi un habitué del tuffo invernale come il comico riccionese Paolo Cevoli, che sarà presente all’inaugurazione”
Un’iniziativa nata “solo grazie all’intraprendenza e all’audacia dei nostri operatori, geniali e visionari”.
A quando queste iniziative anche in Abruzzo?
Fonte: www.ttgitalia.com – foto by ilrestodelcarlino.it
Ancora buone news per l’Abruzzo. Infatti l’artigianato e il turismo made in Abruzzo saranno presenti dall’1 al 9 dicembre a L’Artigiano in Fiera presso Fieramilano Rho-Pero, la fiera dell’artigianato più famosa d’Italia.
“Tutti i giorni dalle 10.00 alle 22.00 in Piazza Abruzzo (Pad 3) sarà possibile acquistare prodotti artigianali, conoscere le bellezze naturalistiche e storiche, provare la tradizione culinaria, partecipare a laboratori di ceramica.
La partecipazione è stata possibile grazie allo sviluppo e al coordinamento del Centro Regionale per il Commercio Interno delle Camere di Commercio d’Abruzzo, con 40 società rappresentative dell’artigianato, della manifattura e dell’agroalimentare, oggi l’Abruzzo è qui presente per mostrare le abilità delle nostre genti e a valorizzare, grazie alla presenza dei parchi, delle oasi naturalistiche e delle migliori Destination Management Company, l’ospitalità della nostra terra
Questa manifestazione, oltre a consentire al grande pubblico di avvicinarsi ai prodotti abruzzesi, permette di presentare l’offerta turistica della stagione in atto, legata prevalentemente alla montagna e al prodotto sciistico, e di anticipare le proposte culturali e balneari per la prossima primavera. Dai borghi più belli d’Italia agli eremi, dai castelli alle città d’arte, dagli itinerari di trekking alle ciclovie, dalle spiagge alla costa dei Trabocchi”.
Se siete a Milano e dintorni non vi lasciate scappare questa bella occasione per conoscere meglio le eccellenze del nostro territorio e sempre … Forza Abruzzo!